Ti capitavano alla sera; bussavano alla porta e, se non aprivi, la fracassavano, prendevano l’uomo e lo bastonavano col manganello. Alla mattina, lo trovavi sanguinante, magari per la strada; non sapevi chi fosse stato, perché venivano di sera e non si facevano riconoscere…
Sono nato a Cagnola di Cartura il ventiquattro giugno del ’22; mio padre si chiamava Antonio e mia madre Giselda Jorio. Eravamo in otto fratelli e oggi siamo rimasti in sei. Per quanto riguarda il periodo della guerra, ricordo che l’annuncio è stato dato nel ’40 e io sono partito militare nel ’41 perché frequentavo il liceo scientifico e c’era una proroga di anno in anno, fino a quando non prendevi la maturità. A Cagnola, dove abitavo io, c’era il palazzo dell’ingegner Gosetti; il palazzo aveva davanti un poggiolo e lui, quando c’erano manifestazioni, metteva la radio là. Noi andavamo e ascoltavamo. Così ho saputo dello scoppio della guerra. Non avevo ancora vent’anni; eravamo un po’ tutti infatuati dei balilla, del fascismo, di una storia e l’altra; così noi: quello che diceva il Capo era il non plus ultra.
Mi ricordo che, nel ’39-’40, era partito mio fratello che era del ’17; era militare in Africa. Una volta gli ho scritto: “Sii contento, perché qui per la radio dicono Mussolini di qua, Mussolini di là”. Mi ha dato una risposta… “Sì, prova a venire qua tu e vedrai quanto si sta bene”. Lo ricordo ancora; credevamo a tutto quello che ci dicevano, per questo l’annuncio della guerra è stato accolto bene e, quando abbiamo sentito “Guerra contro i francesi!”, abbiamo esultato: “Guerra, guerra! Evviva il Duce!”. Però dopo… Non sapevamo niente, eravamo analfabeti. Io avevo un po’ di cultura perché studiavo, se no non si sapeva niente. Più tardi ho cominciato a essere un po’ più furbo e allora andavo ad ascoltare Radio Londra, ma questo in un secondo tempo.
La guerra era già cominciata, si ascoltava Radio Londra, sempre di sera, in una stanza interna, in modo che non si sentissero i rumori da fuori.
Al momento dell’annuncio dell’entrata in guerra, le persone più in vista del paese si sono dimostrate entusiaste. Il parroco di Cagnola, ad esempio, non è che abbia applaudito, ma tutti sottovoce… Il parroco di Cartura, don Giovanni Sartori, era fascista. Quello di Gorgo era un menefreghista che si interessava al cibo, ad avere dei buoni pollastrelli… Era don Zancanaro. I parroci di allora erano come noi: guai se facevano qualcosa contro il regime perché, se lo sapevano le milizie, partivano a manganello e a olio. Allora nessuno si arrischiava. Il podestà era Buzzaccarini; faceva i suoi studi e basta. Il vecchio non è che lo conoscessi tanto, perché ero un ragazzino: avevo solo diciotto anni. In paese c’era una gerarchia: l’ingegnere di Cagnola, il podestà e poi il segretario comunale; era una genìa che andava d’accordo. Il segretario comunale si chiamava Sgobbi; andava a cena per le case, aveva cene ogni settimana. Poi c’era Angelino Mandruzzato. I capoccia erano tutti schierati col fascismo; volenti o nolenti. Ti capitavano alla sera; bussavano alla porta e, se non aprivi, la fracassavano, prendevano l’uomo e lo bastonavano col manganello.
Alla mattina, lo trovavi sanguinante, magari per la strada; non sapevi chi fosse stato, perché venivano di sera e non si facevano riconoscere.
Comunque ho potuto rimanere a casa fino al luglio del ’41, quando ho preso la maturità scientifica. Ho portato al distretto militare il certificato di promozione e, con quello, a ottobre mi hanno arruolato. Prima mi hanno mandato al deposito di Villa Vicentina; là mi hanno equipaggiato e siamo andati a Laurana, in Jugoslavia, una terra che, un tempo, era nostra. Là c’era una caserma; io facevo servizio come allievo ufficiale. Cioè ero iscritto alla scuola per allievi ufficiali, però bisognava fare anche il servizio interno. Vicino a Laurana c’era Montemaggiore che era infestato da partigiani che, di notte, scendevano. Allora suonava l’allarme; dovevamo vestirci e metterci in attesa. Qualche volta uscivamo anche in perlustrazione. Non ce l’avevano con noi, comunque: ce l’avevano coi fascisti, distinguevano; tanto è vero che ad ogni garitta mettevano un fascista e un soldato; però, se dovevano far fuori qualcuno, facevano fuori il fascista. In questo periodo non ho avuto scontri. A Montemaggiore andavamo fuori, sulle colline, ma quando ci vedevano scappavano tutti. Là ho fatto il corso per sottufficiale e poi quello di ufficiale, col grado di tenente. Però non mi hanno dato il titolo di tenente, ma quello di maresciallo maggiore per non spendere soldi.
A Laurana sono rimasto fino a quando hanno dichiarato la prima caduta del fascismo, il venticinque luglio del ’43. Noi l’abbiamo saputo da qualcuno che aveva la radio piccola ed eravamo tutti contenti. Ho pensato: “Ormai è finita e ce ne andiamo tutti a casa”. Invece il comando ha raggruppato il battaglione, ci hanno riportati a Villa Vicentina e là ci hanno equipaggiato e mandati a difendere l’aeroporto di Ciampino. L’otto settembre del ’43, siamo invece andati a difendere Porta Pia, ma là è arrivata una colonna tedesca armatissima, coi carri armati. Noi ci siamo spaventati e siamo scappati, ci siamo ritirati. Anche dell’armistizio l’ho saputo sentendo in giro; non avevo una radio, né niente. Ci hanno subito mandati in difesa di Porta Pia contro i tedeschi perché eravamo passati contro di loro e bisognava evitare che entrassero a Roma; ma questa colonna che era arrivata era immensa. Allora ho detto: “Se stiamo qui, ci uccidono tutti; è meglio se torniamo indietro”.
Così siamo rientrati a Ciampino. Abbiamo creato un fronte coi cannoni e, coi fucili che avevamo, ci siamo messi in difesa. Abbiamo resistito per tre giorni senza mangiare; al terzo è arrivata una marmitta di riso che puzzava da petrolio. In questo periodo sì che abbiamo avuto degli scontri. Alla fine, non so se per paura o cosa, i tedeschi ci hanno concesso la resa con l’onore delle armi. Erano le sei di sera, i tedeschi erano fermi, col fucile in presentat-arm e noi siamo passati tutti gongolanti perché ci hanno fatto vestire bene. Però la fame era tanta: tre giorni che non mangiavamo. Alla fine abbiamo detto: “Cosa facciamo qua? Chi andiamo a difendere?”. Allora, contro il volere dei nostri superiori, ci siamo buttati per le case, sbandati. Loro volevano che resistessimo e potevamo farlo. La resa è stata una decisione di noi militari, perché avevamo sentito che tutti gli altri reparti si erano arresi, oppure, come i bersaglieri, erano finiti male; le voci circolavano tra di noi militari.
Ci siamo chiesti cosa fare. Io mi sono vestito e sono andato in una casa dove abitava una signora e le ho detto: “Mi ospiti, perché sono scappato e non ce la faccio più”. Allora, per quella sera, mi ha ospitato nei sotterranei. Io ero partito con una coperta e basta; lei mi ha dato una stanza per rivestirmi e ho dormito là. Mi ha dato anche un piatto di minestra di ceci: l’abbiamo divisa in tre. Eravamo scappati in tre; uno era di Villatora. Il maresciallo Graziani aveva detto che tutti i soldati dovevano riunirsi e marciare contro il nemico comune, cioè non contro i tedeschi, ma contro gli inglesi. Invece noi, di sera, siamo andati dai capitreno che facevano le tradotte per il Nord, siamo saliti e siamo andati fino a Bologna.
Là c’era però la ferrovia interrotta, così abbiamo dovuto scendere alla stazione prima e andare a piedi a quella successiva. Il fatto è che bisognava passare per il centro che era pattugliato dai tedeschi. Io stavo male, facevo fatica a camminare, così sono rimasto indietro. Ho visto più avanti i tedeschi che incanalavano quelli che arrivavano verso una casa; allora sono scappato assieme ad altri due o tre che conoscevano la strada per la stazione successiva. Così abbiamo ripreso il treno e siamo finiti a Rovigo. Ho mandato a dire a un mio amico che ci venissero a prendere. Sono arrivati con un carretto e con quello ci hanno portati a casa loro. Là mi sono lavato, mi hanno dato una bicicletta e sono venuto a casa mia. Sono arrivato la domenica sera; il lunedì avevo quaranta di febbre e hanno dovuto ricoverarmi a Conselve. Sono rimasto in ospedale per sessanta-settanta giorni con una infezione polmonare e un attacco di pleurite. Se mi prendevano e portavano in campo di concentramento sarei morto. Dopo ho continuato ad andare all’ospedale militare per dei controlli; in tutto ho fatto duecentodieci giorni di convalescenza.
Alla fine della convalescenza, stando a casa, ero ormai in amicizia con tutti quelli che chiamavano ribelli e che si erano dati alla macchia, cioè si erano nascosti. Anch’io ho dovuto farlo, una volta finita la convalescenza, per circa un anno. Avevamo dei tombini sotto terra ai Patriarcati che è la campagna al di là del canale. Poi c’erano i fossi e, per fare dei passaggi, mettevamo dei tombini grandi; noi andavamo a nasconderci là sotto. Ero ben visto dai partigiani e andavo con loro. Durante il giorno, quando non c’era nessuno, andavo a casa. Dormivamo nei tombini o fuori, nei pagliai, specie d’estate. Ognuno era libero di fare quello che voleva: c’erano quelli che si dicevano partigiani e andavano dove volevano. Qualche volta, quando dicevano che alla sera dovevano passare i partigiani, il giorno dopo sentivi dire che avevano rubato due buoi da una parte e due dall’altra. Qui hanno fatto un po’ tutti i loro interessi. La notte andavano a portare via le vacche in macelleria e, ci saranno anche stati dei partigiani, per carità, però quelli che conosco io sono gente uscita col venticinque aprile; quella mattina erano fra quelli che gridavano più forte, col fucile in mano.
Non ricordo comunque che ci fosse un capo operativo. Io ero abbastanza temuto da una parte e dall’altra perché andavo in giro con una doppietta e una pistola-machine; dopo il militare, avevo anche il mitragliatore. Per un periodo hanno anche cercato di mettermi a guardia di un loro arsenale; mi hanno detto: “Giura che non ne parlerai con nessuno; però sappi che, se scoprono questa cosa, ti fucileremo”. In quel periodo non sapevo niente e ho mantenuto il segreto; c’era uno là, ogni tanto, andava a controllare. Era tutto coperto, segreto. E’ andata avanti così per sei-sette mesi, poi ho detto: “Io mi tolgo, perché devo studiare e non posso perdere anni con voi a fare la guardia. C’è della gente che ci tiene, ed allora cercatela voi e basta”. Con quello me la sono cavata; ho sempre mantenuto il segreto e lo mantengo anche adesso. So chi era il capo, chi andava a pulire le armi, ma lo tengo per me.
Una volta uscito ho continuato a studiare, mantenendo sempre buoni rapporti con tutti; quando studi non puoi fare anche politica, specialmente se, come me, recuperi due anni in uno. Ricordo che in quattro giorni ho fatto tutti gli esami del primo anno: uno il lunedì, uno il martedì, uno il mercoledì e uno il giovedì. Il voto più basso è stato ventisei. Dopo mi sono messo subito col secondo anno. L’anno dopo ho recuperato gli esami e quindi, invece di laurearmi in sei anni, mi sono laureato in sette e mezzo. Però ho studiato tanto. Del resto, se ero alla macchia, mica potevo andare a ballare…
La mia casa era molto grande e mio padre era sempre ben visto da tutti; lui era vicino all’ingegner Gosetti, andava d’accordo. Mio padre è sempre stato antifascista, ma una volta occorreva portare il distintivo del fascio, però siccome si usava il tabarro, con la scusa del mantello non lo portava mai. Era un agricoltore e ha fatto tanti sacrifici perché io potessi studiare. D’altra parte eravamo in otto fratelli e non si potevano dividere i campi. Allora bisognava che uno studiasse e, quando aveva finito, se ne andava da casa, così quelli che restavano respiravano.
Durante il periodo in cui sono stato alla macchia, non ho mai avuto problemi di cibo; da mangiare ce n’era finché volevo. Qui c’era pane bianco, nero, di tutti i colori. La tessera nemmeno l’adoperavo; mai sofferta la fame. Si procurava di tutto al mercato nero che era molto fiorente. C’erano delle donne che partivano da qui con la valigia piena di farina e andavano a portarla a Milano. Il bestiame veniva ucciso di notte nei Patriarcati e poi veniva portato alla parrocchia di Cagnola. La notte dopo arrivava la macchina del seminario e caricavano la carne che serviva per i seminaristi; quando c’era un prete non gli facevano niente. Comunque c’era tanto mercato nero. Si produceva qui e si vendeva: quelli che avevano qualcosa hanno fatto i soldi. C’era alcool in quantità; per prelevarlo hanno perfino fatto un buco in una cisterna in distilleria; poi lo tappavano. Ogni notte si vedeva un battello che andava giù: portavano via l’alcool lungo il canale; dopo lo distribuivano nelle varie famiglie e da lì partiva e andava via.
Quando sono arrivati verso la fine di una cisterna che avrà contenuto quattrocento-cinquecento ettolitri di alcool, hanno messo una bomba e hanno fatto saltare tutto. Erano quelli del mercato nero. Si occupavano tutti di questo, comprese le famiglie; quelle che avevano poco, avevano a casa una damigiana da cinquanta litri. L’alcool si usava per fare liquori: facevano cognac, tutti i liquori del mondo. Vendevano l’alcool puro o sotto forma di liquore. Il mercato nero era organizzato alla spicciolata; andavano in giro e ti portavano via certi buoi da sette o dieci quintali; poi, in piena notte, li uccidevano. Alla mattina, facevano dei fagotti, così tutte le famiglie avevano la loro fornitura: abbiamo mangiato tanta di quella carne che ormai ci nauseava. C’erano anche dei partigiani che venivano da lontano per rifornirsi di carne e roba, ma io non li conosco.
A Cartura non si è sentito il problema della fame. Qui arrivavano bestie addirittura dalla Romagna; le mettevano nelle scuole di Cagnola e poi, con la complicità di qualche tedesco, se le spartivano di notte. Erano proprio i tedeschi che facevano passare la vacca. Poi a loro davano soldi, oppure alcool, liquori. C’erano dei tedeschi che non chiudevano un occhio: ne chiudevano due. Loro, in generale, si sono comportati bene qui. Solo che nella ritirata, mentre se ne stavano andando, qualcuno ha detto: “Facciamo così ai tedeschi!”. Allora uno ha sparato un colpo di fucile contro un gruppo. Questi si sono messi in postazione col cannoncino e hanno cominciato a buttare bombe di qua e di là. Difatti una Zanovello di Cagnola ha preso una scheggia a un piede e dopo è morta.
Per quanto riguarda Luisari e Cavalli, non li hanno uccisi qui. Io ero piccolo e li ho visti tutti e due. Luisari era un buon uomo, un vero partigiano. L’avvocato Cavalli, secondo me, era ben diverso. E’ stato fatto passare per antifascista, ma solo perché è stato ucciso. Luisari, invece, era una persona splendida. Erano da Padova; qui li abbiamo conosciuti perché li hanno buttati nel canale. Quella sera c’era anche un tizio di Cagnola che era andato lì vicino per pescare e ha visto tutta la scena: quando sono arrivati i fascisti, hanno messo una pietra al collo di Luisari e di Cavalli e li hanno buttati in acqua. Però non sono stati uccisi là: li hanno buttati dentro morti. Uno è stato trovato subito, l’altro dopo quattro o cinque giorni. Li ho visti quando li hanno tirati su e anche al cimitero, in cella mortuaria; l’avvocato era pieno di vermi e aveva una faccia così. Allora si era giovani e un po’ curiosi. Luisari, che è stato trovato prima, era normale.
Tra gli antifascisti di Cartura c’erano i Geremia, ma non tutti: uno, che chiamavano “Il Matto” e che era figlioccio di mio padre, era di tendenza fascista. Un altro, invece, Ferdinando, è morto di tifo durante la guerra. Quello era veramente antifascista, un pensatore; però, non un uomo d’azione come suo fratello Bruno che poi, finita la guerra, è diventato sindaco. Poi c’era anche un altro che è diventato primario a Monselice. I Geremia erano una buona famiglia.
Tratto da: I giorni della guerra. La vita quotidiana durante l’ultima guerra nel racconto degli abitanti di Cartura, 1996. Diego Pulliero – diego pulliero@libero.it