Avevamo le tessere all’epoca. Con la tessera ci davano un pane che sembrava fatto con la segatura; se lo tiravi addosso a uno lo ammazzavi…
Sono nato il 28 maggio del 1925 a Ponte San Nicolò. Mio papà si chiamava Luigi e la mamma Eva Nicoletto. In famiglia c’erano tre sorelle e io che sono il primogenito. Di mestiere mio papà faceva il messo comunale a Padova. Era mutilato della prima guerra mondiale. Aveva le scarpe ortopediche per i piedi, quelle che gli passavano appositamente. La mamma invece era casalinga.
La casa era qui in centro a Ponte San Nicolò, in via Carlo Giorato, davanti alla chiesa. All’epoca c’era il tram che passava dietro di noi. Era della Veneta: partiva da Piove e andava a Padova, passando per il ponte di ferro che c’era prima; sarebbe dove c’è la passerella adesso. Costeggiava la strada provinciale. Mio papà si ricorda quando è stato fatto quel ponte. Il tram arrivava fino a Piove in un senso e a Santa Sofia nell’altra direzione.
Qui intorno come famiglie c’erano i Podetti, i Toffanin che dopo sono andati a stare via… C’era Pianta Eugenio che faceva il fotografo e viveva da solo proprio di fronte a casa mia. Ricordo anche Paccagnella Orlando che ferrava i cavalli; era il favaro, cioè il fabbro. Io andavo là come bocia a mandargli via le mosche e girare la fola. Mi dava la mancia.
Avevamo anche noi un soprannome: era Vis-cio. Così io ero Cesco Vis-cio. Era perché eravamo di razza tachente!
Qui c’era il Borghetto: erano tre o quattro famiglie, ma era tutta gente sotto padrone. La Palanchina era bidella… Il Borghetto sarebbe dove adesso c’è l’erboristeria; c’è una via che va dentro e là c’erano delle casette, circa cinque case. Erano tutti affittuari: la Ninetta, Zira, Palanchetto, Figarola e Pepe. Erano casette tipo casette a schiera. Mi ricordo che nella cucina di Pegoraro c’era ancora il pavimento di terra; ogni tanto ne portavano qualche carriola e la scaricavano lì dentro. Quanta miseria c’era! Erano di Callegari le case. Aveva la macelleria e dopo suo figlio è diventato medico, il medico comunale che c’era nel dopoguerra; il papà lo ha fatto studiare. Un buon figlio, brava persona. C’è ancora sua sorella che vive qua e ha un’erboristeria. E’ la più giovane di quattro fratelli.
Nel quartiere, dal ponte a sinistra, c’erano la mia casa e la chiesa. Dopo c’era il Borghetto e dopo ancora c’era la piazza. In piazza c’era il fornaio nell’angolo e dopo c’erano altre tre o quattro affittanze. C’erano Gesuato, Gottardo e infine Emilso, che sarebbero i Gesuato di cognome.
Il proprietario della bottega del fornaio era Tessari, ma era in affitto perché il padrone era Callegari; erano sue anche tutte le case che c’erano là vicino nella piazza. Callegari era una degna persona prima di tutto e anche caritatevole. Era buono, Bruno: pochi uomini al mondo sono uguali.
C’erano anche altre botteghe qua attorno. C’era il fabbro, dopo c’era la farmacia dietro casa e c’era la pesa. Sull’angolo della piazza c’era il vecchio Gildo, coi mustacchioni; avevano gli alimentari dove c’è ora l’erboristeria. Era il padre di Bruno Callegari.
Osterie non ce n’erano qui vicino. Ce n’era una all’angolo della piazza, ai piedi del ponte, e un’altra di là della strada, venti o trenta metri più indietro, dal lato del Comune. Si chiamavano Benettazzo e Milani Nicola. Erano una di qua e una di là del fiume. Due in totale.
Il parroco era don Carlo Mattioli che ricordo bene. Era un prete che andava avanti col suo tran tran. Cercava di trattare bene i paesani, specialmente le donne. Così mi ha detto mia nonna e io a mia nonna credo, perché è morta da noi a novantaquattro anni e mezzo e aveva ancora il cervello lucido. Aveva il fisico consumato, ma la memoria intatta.
La levatrice era la mamma della Iole. E dopo anche lei, la figlia, ha proseguito. Erano viste bene in paese. Sì sì: niente da dire.
Mi ricordo anche di quando hanno fatto la Casa del fascio, ancora quando ero bambino, e dopo hanno fatto i capannoni, le officine. Anche se ero bambino me ne ricordo come se fosse adesso; mi ricordo di quando mettevano le prime travi di cemento sul coperto. Hanno fatto una fatica! La Casa del fascio è giù dal ponte, dove adesso c’è la scuola.
Come persone di spicco in paese c’erano i Turcato: erano buona gente, di meglio non ne esiste. Io ho passato la vita in quella casa; andavamo là a prendere gli uccelli. Mi ricordo Stefano: sono andato a portargli i confetti e mi ha aperto una bottiglia di vino che aveva un sacco di anni. Erano benestanti; erano proprietari terrieri. Erano proprio ricchi. Qua avevano un sacco di campi loro. Il podestà si chiamava Stefano, Stefano Turcato. Aveva tre figli: la Stella, Antonio e Beppino; due maschi e una femmina. Hanno ereditato un palazzo molto grande qui, vicino al ponte, dove abitavano. Uno è morto da poco, da un paio di mesi. Stefano, il podestà, era col fascismo anche lui perché bisognava che ci stesse a quel tempo.
Mi ricordo le manifestazioni dei figli della lupa; allora non andavi via per politica, andavi via per divertirti, per andare in gita. Turcato non era di quelli che facevano cattiverie. Era una degna persona come tutta la famiglia. Ha accettato la carica e basta. Era lui il podestà anche durante la guerra.
Di possidenti, oltre a Turcato, c’erano i Callegari; come dicevo, erano padroni di tutta la piazza qua. Tutte le case erano loro. Altre persone in vista del paese in quel periodo erano R. della B.: era un fascista convinto; non cattivo, ma ci credeva come ideale. Di cognome era B. Era un impiegato del partito. Anche lui non ha mai fatto storie. Faceva i fatti suoi. Io abitavo a dieci metri da questo e a dieci metri dall’altro, ma mai stato niente da dire.
Invece M., lo zoppo, quello con la gamba dura. Eh, quello era diverso. Abitavano di fronte a casa mia. Anche i fascisti erano molto diversi tra loro. Quelli con gli ideali, ma anche altri…
Quando è scoppiata la guerra ero a casa a lavorare. Mi ricordo che l’ho saputo dalla radio; è stato fatto un affare grande; si è sentito che ne parlavano tutti. Io avevo quindici anni quando è scoppiata la guerra. Se la gente era convinta di entrare in guerra? I fascisti lo erano… Malati qua! Tanti erano entusiasti e quelli che non erano contenti dovevano stare zitti, altrimenti erano dolori. Quando è scoppiata hanno fatto diverse adunate, ma quelle non erano una novità: quelle le facevano sempre. Io sono stato anche a Roma col duce, ma perché volevo vedere Roma. Avrei dovuto marciare, ma avevo male alla gamba e non ho mai marciato. Ma sono andato a vedere Roma.
Dopo è venuto che ci sono state persone qui attorno che hanno avuto militari morti in guerra: Danieli, Bepi Cestaro, il barbiere, il marito della Palanchetta, non mi ricordo il nome… Che sappia io questi tre. Il barbiere è morto in Africa, Lido Danieli è morto in Russia nella divisione Julia. Per forza sono morti: li hanno lasciati là! Però la notizia della morte è arrivata dopo; non è che spiegavano cosa succedeva al fronte: dicevano quello che gli faceva comodo. Non raccontavano le batoste prese, che indietreggiavano, le mitragliate, ecc. Dicevano che mantenevano le posizioni… Lo diceva la radio.
Invece mi ricordo bene di quando è caduto il fascismo, il 25 luglio. Ci sono state manifestazioni, cose… Io ho fatto una bella balla! La gente era contenta. C’era poco, ma abbiamo bevuto un paio di fiaschi di vino, quello che c’era, e dopo facevamo una cantata.
Io avevo idee antifasciste; per me sono state una cosa spontanea perché sono sempre stato di quelle idee. Da Anselmi le mie idee erano condivise da parecchi, ma bisognava stare attenti a dirle: se qualcuno ti faceva…
Mi ricordo bene di quando è caduto il fascismo, il 25 luglio. Ci sono state manifestazioni, cose… Io ho fatto una bella balla! La gente era contenta. C’era poco, ma abbiamo bevuto un paio di fiaschi di vino, con quello che c’era, e dopo facevamo una cantata.
Di partigiani ce n’erano, ma qua non c’era azione perché siamo in pianura e ti scoprivano subito. Io ho la tessera da partigiano. Sono entrato nei partigiani perché tra amici abbiamo fatto una cellula qua. Trasportavamo armi, facevamo collegamenti in bicicletta da corsa, da una parte all’altra, ma c’era sempre da rischiare. Eravamo con la brigata Franco Sabatucci. Eravamo tutti amici della mia età. Boscaro Giovanni, Bonon Silvano, Berto Vittorio Sestaro, Toson Bruno e dopo c’era Carlo Giorato, quello che è morto due giorni prima che finisse la guerra, con la Liberazione. Dopo c’erano Bortoletto Alfredo e Norbiato, Marchioro… Marchioro abitava qua, dietro l’argine. Era giovane.
Eravamo un gruppo di amici; eravamo come una cellula. All’inizio due o tre amici e poi avevi un amico e dicevi: “Ehi, guarda che passa da qua a qua, cosa e come…” C’era da rischiare perché se ti prendevano non andava mica tanto per le lunghe… Dopo c’era anche Natalia Miolo. Aveva un soprannome, Cincetta. Era per mascherare… Si è anche presa una pallottola su una gamba.
Non avevamo uno che faceva il capo, era sempre fra noialtri. Cercavamo di consigliarci, di fare e brigare e di stare sempre all’erta perché erano affari grandi: se ti pescavano eri finito. Hanno preso quattro o cinque dei miei amici – Silvano Daziaro e altri – e li hanno portati a Este. Io sono partito da qua in bicicletta e sono andato a trovarli dentro in caserma. Li hanno presi con un rastrellamento mentre erano in osteria da Nicola. Ne hanno portati via quattro o cinque, sei. Dopo li hanno portati a Brescia Sono tornati con un camion che andava a carbonella pieni di fame e tutto.
Abbiamo fatto questo gruppo di partigiani e dopo abbiamo fatto qualche azione, ma era trasporto d’armi soprattutto; io facevo da portaordini e collegamento con la bici da corsa, come le ho detto. Avevo un mucchio di carte false che se mi fermavano non sapevano neppure quale guardare. Me le facevo io!
Quando portavamo le armi era un pericolo grande. Con quegli schioppi ancora della guerra del ’15-’18 che erano lunghi da qua a là… Le armi arrivavano, ma non si conoscevano i nomi di chi le portava, era gente da fuori. Era segreto il loro nome perché si è verificato che si era intrufolato qualche delinquente; per quello ti prendevano. Queste armi le nascondevamo: per forza… E dopo dove servivano le portavamo. Le portavamo via con un carrettino attaccato alla bicicletta con dei sacchi sopra. Le portavamo qui, alla Volta che gli serviva… Insomma in due o tre parti le abbiamo portate. Se ti fermano e ti prendono ti ammazzano sul posto. Non le nascondevamo in casa; mai in casa. Nella soffitta della chiesa vecchia, quella che c’è di là dell’argine. C’è un posto in soffitta che nessuno lo sa. Sul campanile le trovavano subito, così abbiamo spostato i coppi e ricavato il nascondiglio nella chiesetta qui dietro, vicino al canale. Facevamo anche delle riunioni; ad esempio a casa mia o in casa di uno o di quell’altro.
Avevo sempre la tuta da lavoro addosso; i tedeschi quando ti vedevano in tuta ti lasciavano andare subito perché pensavano che dovevi andare a lavorare. Una volta ho portato delle pallottole di una pistola da carabiniere a un amico; lavoravamo da Anselmi insieme. Le avevo sotto il pentolino del pranzo. Mi hanno fermato sotto il ponte della Volta, ma quando hanno visto la pignatta mi hanno lasciato andare. Hanno detto: “Ja Ja! Buono, buono!” E via! Guai a incantarsi. Nel nostro piccolo abbiamo contribuito.
C’era anche gente nascosta qui intorno; prigionieri inglesi. C’era un canale morto vicino all’argine. I prigionieri inglesi lo hanno chiuso con le carriole; tanto perché facessero qualcosa. C’erano i tedeschi che li sorvegliavano. Di tedeschi qua non ce n’erano proprio tanti. Qua no; erano solo di passaggio. A Saonara ce n’erano perché avevano la Todt, quella dei lavori. Facevano i camion per fare i lavori.
Si ascoltava anche la radio inglese, Radio Londra. La radio ce l’avevano in parecchi; anche noi ce l’avevamo. L’ascoltavamo a casa. La mettevo in un angolo e la ascoltavamo; mandavano i messaggi dei partigiani.
Ogni notte passava Pippo. Puntuale. Io comunque sono stato sempre in giro anche di sera. Se mi arrivava in testa… cosa potevo farci? Andavo in giro anche col coprifuoco. Qua più che altro hanno bombardato il ponte negli ultimi giorni. Un bombardamento ha preso il ponte in pieno e dopo gli inglesi hanno fatto un ponte di tavole di legno. Una notte sono andato da loro a fregare delle tavole perché mi servivano.
Avevamo le tessere all’epoca. Con la tessera ci davano un pane che sembrava fatto con la segatura; se lo tiravi addosso a uno lo ammazzavi. In tanti paesi ci si arrangiava col mercato nero e anche qua ce n’era di sicuro. Più che altro per quei disgraziati che venivano da Padova. Noi qui ci arrangiavamo in qualche modo perché eravamo in campagna. Durante la guerra qua non c’è stata proprio tanta fame. Hanno avuto problemi quelli che sono stati bombardati a Padova; sono venuti qua ed erano sfollati. C’erano abbastanza sfollati qua attorno. C’erano famiglie coi bambini. In casa avevo due donne coi mariti militari. Hanno fatto una vita… Sono andato io a tagliargli i platani per fare un po’ di legna. Cosa facevano quelle due donne là, se no? Erano affittuari nostri. Una era anziana. Due spose e cinque-sei figli. Due coppie con questi bambini.
Gli ultimi giorni della guerra abbiamo fermato qualche tedesco qua. Quando li prendevamo li portavamo a Padova al 58° Fanteria. Venivano dall’argine. Ma erano stufi. Buttavano via tutto. Gli bastava che li lasciassi stare. E’ in quel periodo là che Giurato è morto. È stato ferito e si è dissanguato in una sparatoria con un’autoblinda tedesca vicino all’ospedale. Era del nostro gruppo, fantoìn… C’era solo lui in questo gruppo che si è scontrato. Mi aveva detto di andare insieme a lui a Padova, ma ho detto che dovevo andare da un’altra parte per avvisare… Si vede che lui era partito lo stesso da solo.
Invece la Natalia Miolo è stata ferita, ma era una roba da poco, la pallottola non ha preso l’osso né niente. Uno dei nostri ha sparato a un tedesco e lei è stata ferita di striscio. Noi eravamo in questa osteria di qua. Io ho sparato una raffica in aria perché non potevo sparare al tedesco perché c’era uno attaccato; allora ho sparato in aria. Il tedesco è scappato in bicicletta.
Quando sono arrivati gli americani abbiamo fatto delle balle internazionali! Andavamo a ballare sull’aia di Carraretto. Quanto ridere con gli americani! A uno gli ho fregato il fucile, un Thompson. Sono stati accolti molto bene: non vedevamo l’ora che arrivassero…
Tratto da: Memoria e vita quotidiana. La seconda guerra mondiale nel racconto degli abitanti di Ponte San Nicolò. 2006. Comune di San Nicolò. Diego Pulliero – diego.pulliero@libero.it