Chiara Boccardo – Kehre secondo me

Tutto è cominciato in quarta superiore.

Ero la classica liceale snob, rinchiusa in una bolla di convinzioni e pregiudizi.

In quel periodo il Ministero dell’Istruzione aveva disposto che, per accedere all’esame di maturità, si dovesse accumulare un tot di ore di “alternanza scuola-lavoro”. Tra i pochi progetti extracurriculari a mia disposizione, scelsi quello che mi sembrava il meno peggio; una volta a settimana dovevo recarmi a svolgere un’attività di dopo scuola per le elementari.

Era come fare volontariato, in quanto nessuno mi pagava, con l’unica “piccolissima” eccezione che ero obbligata a farlo per raggiungere quelle famose 200 ore.

Durante questi pomeriggi dovevo aiutare i bambini provenienti dalla scuola primaria a fare i compiti; non era un lavoro arduo, tuttavia c’erano delle volte in cui i piccoli si ostinavano a voler fare di prima iniziativa e non c’era modo di fermarli.

Mi accorsi fin dall’inizio che la maggior parte di questi bambini non era di nazionalità italiana, e questa cosa, nonostante mi dicessi “no, ma io non sono razzista” mi turbò parecchio. In fin dei conti non mi era mai capitato di andare fuori dalla mia “comfort-zone” e questa realtà era da me sconosciuta e fino ad allora ignorata.

Al termine dell’attività insieme ad altri volontari, veri e propri, dovevo accompagnare i bambini a casa propria; a partire da quei momenti iniziai a esplorare questo mondo nuovo e finalmente cominciai ad aprire la mia mente verso la conoscenza di nuove culture, senza però togliere dalla mia testa determinate convinzioni.

Tuttavia un giorno accadde un fatto che mi sconvolse particolarmente: la responsabile di questo mio progetto, senza la quale probabilmente non avrei mai scritto ciò, mi propose di andare, insieme ad altri due ragazzi, a recuperare dei bambini nel campo ROM che stava vicino al luogo in cui facevo alternanza scuola-lavoro; subito mi vennero in mente i pensieri che la gente comune ha: i “rom” sono zingari, ladri, mendicanti, accoltellatori. Beh, nonostante tali premesse, decisi ugualmente di andarci per non risultare scortese, maleducata o poco disponibile.

Ammetto che piano piano che mi avvicinavo al campo ero sempre più intimorita; eppure appena ho messo piede in quel luogo le persone che ci abitavano mi aprirono, senza indugiare, “ le porte di casa loro”; sentii suonare una meravigliosa melodia e vidi che tra di loro si scambiavano tutto ciò di cui avevano bisogno.

Poco tempo dopo prendemmo i bambini e uscimmo da lì.

In quel momento avvenne la mia svolta; “khere” la chiamerebbe Heiddeger, perché nel 1929 si rese conto, dopo la stesura di “Essere e tempo” che la tradizione metafisica aveva dimenticato la questione della verità dell’essere. «Non l’uomo “possiede” la libertà come sua proprietà, bensì è vero proprio il contrario: la libertà, l’esserci ek-sistente e svelante possiede l’uomo, e ciò così originariamente che essa sola permette a un’umanità di entrare in quel rapporto con un ente come tale nella sua totalità, in cui si fonda e disegna la storia.»

So che questo tipo di paragone risulta essere azzardato, eppure come Heiddeger ha trovato la sua soluzione dell’esistenza, così io ho trovato la mia ragione di esistenza.

Intendo spiegare il motivo di una tale affermazione.

A seguito dell’episodio che ho descritto poco fa, la mia città (maledetta in questa occasione) ordinò che in pochi giorni il campo ROM venisse sgomberato. Eravamo tutti esterrefatti, non capivamo perché quei bambini, appartenenti al campo, dovessero tornare in Romania senza avere più possibilità di studiare e senza poter più sperare in una vita migliore. Stavano togliendo loro l’unico diritto che tutti devono avere: sognare, avere la libertà di coltivare le proprie passioni senza essere soggetti a ignoranza e miseria.

Ecco, in quel momento mi misi a piangere e capii che la mia strada non poteva più essere la facoltà di Chimica.

Decisi di cambiare, aprii finalmente la mia rigida mente e optai per un’altra strada: Giurisprudenza.

Ad oggi il volontariato, nonostante le “diverse vite” da conciliare, non mi abbandona e spero che il mio futuro lavoro possa prevedere un legame con la mia passione.

Da grande voglio essere in grado di difendere i diritti dei più deboli, perché tutti dobbiamo avere il diritto di sperare in una vita migliore.

Lo so…Il mio sogno è ambizioso, eppure nessuno mi farà mai cambiare il motivo per cui ho scelto di frequentare la facoltà di Legge.

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