Ho visto Bologna illuminata e mi sono detto. “Sono a casa!”. E quell’altro: “Sì, arriviamo, non avere paura”…
Sono nato qui a Cartura, il ventiquattro febbraio del ’20. Mio padre si chiamava Giovanni e la mamma Emilia Barison. Anche mio fratello è stato a militare ed è nato, come me, a Cartura, solo che ha combattuto in Jugoslavia. Ora è a Milano. In tutto avevo tre fratelli, più io che facciamo quattro. Per il militare sono partito il tredici marzo del ’40. I primi due-tre mesi li ho fatti a Osoppo del Friuli. Non ero stato richiamato, sono andato via da recluta. Dopo qualche mese, la guerra è scoppiata, era il dieci giugno; sono stato trasferito al Tarvisio alla fine di maggio. Il dieci giugno, proprio quando Mussolini stava parlando alla radio, dicendo: “Abbiamo dichiarato guerra alla Francia e all’Inghilterra, come tale in questo momento siamo in guerra”, io stavo salendo sul treno al Tarvisio per andare sul fronte alpino. Il giorno dodici siamo arrivati a Cuneo, anzi, alla mattina del giorno tredici, il giorno di S. Antonio. Alla sera siamo arrivati su a S. Anna di Binavio, a duemila e passa metri. Siamo stati fermi un paio di giorni là, poi è arrivata qualche piccola cannonata, un bombardamento, però non proprio pesante: grandi battaglie, in effetti, là non ne ho fatte. Il ventisette è finita la guerra di Francia e mi hanno mandato a casa in licenza. Sono venuto a casa quattro-cinque giorni, non mi ricordo bene; poi sono ritornato. Però i miei compagni non erano più a S. Anna di Binavio, erano a Cuneo. Dopo qualche giorno hanno annunciato che bisognava partire per l’Africa. Siamo andati a Napoli e dovevamo aspettare alla caserma “Bianchini” che ora è crollata; aspettavamo giorno per giorno la partenza. Il giorno in cui ci hanno annunciato che c’erano le navi e si partiva, sono arrivati i fascisti – tutti studenti universitari – ed hanno voluto partire loro. Noi siamo stati portati a Torre Annunziata. Là siamo rimasti ancora un po’ di tempo, tant’è vero che poi siamo partiti il giorno dopo Natale. Alle sette del mattino ci siamo imbarcati per l’Africa. Arrivati sul canale di Sicilia, alla sera siamo stati attaccati da un sottomarino. Se ne sono accorti e ci hanno fatto ritornare indietro. “Esperia”, “Conte Rosso” e “Marco Polo” erano le tre navi che ci hanno portato. Dopo un po’ sono arrivate due corazzate italiane; era di notte e ci sono passate vicine; abbiamo sentito un tremolio perché avevano mollato le bombe di profondità. Noi abbiamo visto la manovra. Me ne sono accorto perché c’era la luna e non riuscivo a dormire in nave; davanti a me c’erano altri tre-quattro che, anche loro, non riuscivano a dormire. Abbiamo visto la luna da una parte e poi dall’altra che si è come girata. Allora ci siamo accorti che avevamo cambiato rotta e, subito dopo, sono passate queste corazzate. Alla fine siamo arrivati con la luna ancora a poppa, davanti insomma. Siamo sbarcati a Tripoli. Credo di averci messo più o meno tre giorni per arrivarci; siamo sbarcati verso sera, alle quattro. A Tripoli ci hanno caricato subito sui camion e ci hanno portati ad Asmara; la caserma era in mezzo al deserto. Siamo rimasti là fino al giorno sei. Alla mattina siamo partiti e per la strada non ci ha disturbato nessuno. Arrivati a Giovanni Berta – un paese fatto ai tempi di Mussolini -, c’era la ritirata di Sidi el Barrani. Là ho avuto questa prima battaglia. Un po’ di cannonate e poi abbiamo dovuto caricare i cannoni sui camion e scappare. C’era una batteria del nostro reggimento, con amici miei, gente che avevo conosciuto ad Osoppo. Anche loro erano stati sul fronte alpino. Loro erano più avanti di noi perché non si erano fermati in strada, ma erano andati più su. Ad un certo momento vedo una quindicina di ragazzi venire attraverso il deserto, disperati, con gli occhi fuori dalla testa… Erano stati in mezzo alla grande battaglia. Mi accorgo di questa gente e vedo che sono i miei amici. Mi avvicino ed erano talmente inebetiti che uno solo mi ha riconosciuto. Quando sono arrivato ad Asmara, mi hanno ordinato, dato che ero caporalmaggiore, di andare a saccheggiare una bottega di generi alimentari perché meno si lasciava da mangiare agli inglesi, meglio era. Mi avevano ordinato di caricare tutto su un camion e di portarlo via. Io ho portato via tutto quello che era possibile. Quando ho visto arrivare i miei amici attraverso il deserto, mi sono accorto che erano pieni di fame ho detto loro che gli avrei dato da mangiare, che cercassero di farlo perché ancora doveva iniziare la battaglia più forte. Allora ho detto: “Fate presto che vi do da mangiare, perché poi dobbiamo andare avanti”. Così gli ho dato uno scatolone di scatolette di tonno, mezzo sacco di pagnotte e gli ho detto che ci raggiungessero. Abbiamo finito tutto, ma al ritorno non ho più trovato i miei amici; non li ho più visti. Erano più che spaventati , erano talmente fuori di testa… avrebbe dovuto vedere che roba. La battaglia era stata lì vicino, in mezzo al deserto. Erano scappati lasciando tutto e portando via solo l’interruttore del cannone, perché gli ordini erano questi: se no le armi venivano lasciate lì.
C’è stato anche un altro fatto che vorrei raccontare. Una sera un tenente amico mio, uno degli ufficiali che avevo conosciuto, mangiando, ha fatto una peritonite. C’erano i famosi aerei “Ghibli”, dei piccoli aerei del deserto che atterravano e si alzavano su poco spazio ed atterravano anche sulla sabbia. Questo ufficiale doveva essere trasportato all’ospedale di Bengasi. Non poteva stare seduto ed allora gli ho messo le gambe sotto il sedile del maggiore che guidava l’aereo ed io, seduto sul posto dietro, ho tenuto la sua testa ed il collo sulle ginocchia. L’aereo è partito e, verso sera, siamo arrivati a Bengasi. Quando siamo arrivati, era in corso un bombardamento aereo. Dovevamo stare lontano ed andare piano. Dovevamo girare tra le dune per non farci vedere. Abbiamo girato fino alla fine del bombardamento, poi abbiamo portato il tenente all’ospedale ed io sono rimasto due giorni con lui. Dopo ho dovuto tornare; lui è rimasto lì e non l’ho più rivisto. Comunque, dicevo prima, dopo aver aiutato quei miei amici che avevamo incontrato tutti spaventati, in mezzo alla battaglia, abbiamo avuto solo un piccolo scontro, abbiamo tirato dieci-quindici cannonate. Abbiamo visto dei carri armati che arrivavano attraverso il deserto e ci sparavano. Noi, col cannone, abbiamo sparato a nostra volta contro questi carri armati. La battaglia è durata qualche ora. Sull’imbrunire siamo scappati in ritirata, siamo scesi e siamo arrivati fino a Bengasi. Là ci siamo fermati e ci siamo piazzati di nuovo ad aspettare gli inglesi. Ad un certo momento, durante la ritirata, un cannone era andato fuori strada, un altro in mezzo al deserto e un altro ancora era stato mitragliato. Il mitragliamento è stato verso le quattro di mattina. A quelli che erano seduti sotto e che erano protetti, non è successo niente, ma uno che dormiva fuori con la testa c’è rimasto. L’abbiamo sepolto prima di arrivare a Bengasi; poi abbiamo proseguito.
A Bengasi ci siamo fermati un paio di giorni ed i bombardamenti erano uno dopo l’altro. Siamo scappati ancora e ci hanno portato indietro. Prima di arrivare a destinazione siamo stati bloccati da quelli coi carri armati che ci hanno tagliato la strada. Gli inglesi, insomma. Dopo una grossa sparatoria, ci sentiamo dire dagli ufficiali: “Si salvi chi può”. Io cerco di scappare, come tutti gli altri; c’è il fosso della litoranea e mi butto sotto. Poi vedo uno col camion e gli dico di girare il camion e così mi portava via. Lui l’ha fatto e siamo saltati su in diciotto: così siamo scappati. Più avanti abbiamo trovato il nostro colonnello. Appena ci ha visti, ha ordinato di prendere le armi disponibili e tornare indietro. Però quando siamo tornati la battaglia era già finita. Abbiamo visto la colonna dei camion che bruciava perché avevano incendiato i nostri camion. Degli amici che erano rimasti non abbiamo più trovato le tracce e siamo rimasti lì. Quando è calato il buio ci hanno bombardato. Non ci eravamo fermati dove avevano fatto il combattimento, ma un po’ più avanti, in un posto che è prima di Bengasi. Comunque lì ci siamo fermati; volevamo scappare, ma ci hanno bombardati. Non so quanti ne abbiamo lasciati lì. Il destino ha voluto che, dove eravamo io ed un mio amico, ci fosse una piantina che sembrava canapa, anche se non lo era; su quella pianta siamo inciampati tutti e due, giusto mentre scoppiava una bomba, così una scheggia ha preso lui sul sedere e una scheggia piccola ha colpito me qui. Ho comunque perso abbastanza sangue. Dopo lo scoppio mi sono alzato di scatto, senza sapere che ero stato ferito, ed ho attraversato la strada. Appena arrivato dall’altra parte, sento di nuovo il rumore dell’aereo che torna e mi sono buttato a terra. Sono stato coperto dalla sabbia alzata dalla bomba, tanto che quasi non riuscivo ad uscire. Ritorno dov’era il mio amico perché volevo vederlo. Si chiamava Tognon ed era da vicino a Rovigo. Lo vedo tutto sbrindellato, non dava più segni di vita, però era ancora vivo. Attraverso un boschetto sento urlare: era il mio sergente che chiamava aiuto. Gli ho chiesto cosa aveva e mi ha detto che era senza una mano. Nel frattempo a me era venuto caldo, un po’ di nausea… era il sangue che usciva dalla ferita. Non sono stato capace di andare a cercare questo sergente. Ritorno vicino al mio amico per controllarlo fino a quando non ci hanno caricati sui carri; allora, in quel modo ci siamo fatti quattrocento chilometri di deserto africano e siamo arrivati a Sirte. Abbiamo portato il mio amico all’ospedale, però è morto. Quand’era ancora in vita, aveva detto che mi dessero documenti e portafogli per portarli a sua madre quando tornavo a casa, però io non sono tornato a casa: ho dovuto partire di nuovo.
Quando mi hanno fatto prigioniero mi hanno spogliato nudo. Siamo rimasti a Sirte un giorno, un giorno e mezzo; nel frattempo eravamo rimasti in sette-otto di cui io ero l’unico veneto; gli altri erano friulani. Ogni tanto vado a trovare qualcuno; sono ancora vivi. Bene arriviamo a Algedabia e ci portano in una specie di caserma. Là ci fermiamo tre-quattro giorni; c’erano pure i magazzini di viveri. Poi ci hanno dato una grande tenda e l’ordine di andare verso il mare. Ci siamo sistemati lì, con ‘sta tenda, io e questi friulani. Le mie ferite me le sono curate da solo e, per fortuna, sono guarito. Saremo rimasti lì un mese abbondante, non ricordo bene. Poi sono arrivati i tedeschi. Da noi è arrivato un generale italiano che non mi ricordo come si chiamava. Ho conosciuto anche Graziani: eravamo un po’ nascosti, io non lo conoscevo ed ero andato a prendermi dell’acqua. Lui mi ha rimproverato ed allora mi sono accorto di chi si trattava. Sono stato dieci minuti assieme a lui, mi ha fatto delle domande; poi è andato via. Era da solo e vicino non c’erano né macchine né niente. Sono rimasto lì e poi sono andato a Sirte; poi da Sirte verso il mare. Infine sono arrivati i tedeschi. Coi tedeschi era iniziata l’avanzata e così siamo ripartiti. Ci hanno aggiunto un sacco di meridionali e così siamo partiti. Si trattava di superstiti dei vari gruppi. La grande battaglia l’abbiamo fatta sul deserto sirtico, dove c’è la frontiera tra la Libia e la Cirenaica; si chiamava l’Area di Filé; c’erano un bar e un distributore di benzina. Là c’è stata una grande battaglia tra gli inglesi ed i tedeschi. A dire il vero, avremmo dovuto arrivare prima noi di loro, però i tedeschi sono prepotenti e così la battaglia l’hanno fatta loro. Hanno lasciato giù una decina di uomini. Noi abbiamo seppellito i morti. Comunque lì abbiamo passato anche la notte. Questa è stata la notte di sonno più lunga che io ricordi, anche se ero tra due tedeschi morti; c’era la sabbia così e là, sulla sabbia, ho dormito tutta la notte: era da tanto che non dormivo. Poi siamo ripartiti e siamo andati a Bengasi. Siamo arrivati senza battaglie né niente perché gli inglesi se l’erano data a gambe. Quando siamo arrivati un po’ dopo Bengasi, dove c’è la terra come qui, coltivata, con un mucchio di contadini italiani, lì hanno dato l’ordine di andare in un’oasi a settecento chilometri dal Mediterraneo. Abbiamo fatto una battaglia per conquistarla perché ci saranno stati una cinquantina di inglesi; comunque non abbiamo avuto morti né noi, né loro; però loro sono scappati verso il deserto. Siamo stati là tre o quattro mesi, fino al ventiquattro novembre del ’41, quando sono stato ferito.
Nel ’41 sono anche stato fatto prigioniero; adesso spiego come: siamo stati accerchiati dagli inglesi nel deserto; in questo stesso periodo era arrivato dai francesi Pétain e De Gaulle era scappato. Quando sono stati lì, con le truppe francesi che avevano potuto scappare, sono venuti a Kupra, che a quei tempi era il posto dove si fermavano gli aerei per andare poi in Africa Orientale. Proprio là ci hanno portati a combatterli, quando sono arrivati. Erano tutti sfiniti, però noi abbiamo dovuto scappare lo stesso perché lì c’erano anche gli inglesi. Noi aspettavamo in quest’oasi che arrivassero i francesi, quelli che erano scappati dall’Algeria. Lì, però, c’erano anche reparti inglesi meglio armati e più organizzati di noi che ci hanno costretti ad andare via. Una notte – e questa è pure bella da raccontare – ci siamo fermati in un’oasi grande, bellissima, piena di piante e c’era una specie di anitre selvatiche. C’era anche un’istrice grande così che mi ha lasciato gli aculei addosso. Ha bucato il pastrano e, per fortuna, non ha preso le gambe. La notte l’abbiamo passata lì e c’era un marabutto. Passavano gli arabi da quell’oasi, per andare a Bengasi e lì si accampavano. Il capo dei cammellieri è morto proprio là e così gli hanno fatto il marabutto, la sua tomba; era molto alta. Io sono andato a vederla, ma quello che più mi è rimasto impresso è come avessero fatto a farla proprio lì, dove c’era un albero che due uomini non riuscivano ad abbracciare. Sopra questo albero c’era una catasta di sasso vivo di montagna, alta fino alla porta. Non so come lui sia arrivato lì, a meno che non l’abbiano portato i cammellieri appunto, per fare il marabutto e là l’hanno lasciato. Gli arabi non hanno mai accettato che ci fossero gli italiani, anche se erano trattati molto bene. Non ci hanno mai accettato, nonostante tutto, e questo mi ha fatto un po’ male. Poi abbiamo ripassato il deserto, siamo scappati e siamo tornati a Djerba. Una volta arrivati lì ci hanno divisi: quelli coi cannoni da una parte, quelli con le mitraglie dall’altra ecc. Siamo stati tranquilli per un bel po’ di tempo. Il ventitré novembre, però, cominciano loro a sparare coi cannoni a tutto andare. Abbiamo resistito tutto il giorno. Alla notte hanno smesso. Loro ci sparavano con l’ottantotto e noi avevamo il settantacinque-ventisette; noi non potevamo sparare a loro, però loro a noi sì. Per poter sparare dovevamo andare avanti e così per ordine del colonnello, siamo andati avanti. Arrivati là, noi tutti – eravamo venti – pensavamo che davanti ci fosse la fanteria o i bersaglieri, invece non c’era nessuno: hanno mandato solo noi. Approfittando del buio, avevano mandato solo noi! A un certo momento stavamo mettendo a posto il cannone, quando ci vediamo davanti questi indiani che avanzavano all’arma bianca. Dietro c’erano due ufficiali, ma io non li ho visti in faccia e non so se erano bianchi o marrone. Hanno iniziato a sbaionettare senza parlare e hanno bucato tutti. Io sono caduto scivolando, da solo, e sono rimasto fermo lì, approfittando del buio; non mi sono più mosso perché ho pensato che avrebbero ucciso anche me, come gli altri. A un certo momento loro vanno avanti – Djerba era caduta – ed io rimango lì, però muovendomi sono caduti dei sassetti, della roba; l’indiano rimasto sente questo rumore, mi vede e mi tira una fucilata. Io mi sono girato così e la pallottola è entrata da qui ed uscita da qui; ho ancora delle cicatrici che fanno spavento. E’ entrata qua e ha preso tutte e due le gambe. La pallottola ce l’ho ancora dentro. Dopo avermi sparato, l’indiano è scappato. Quando ho visto uscire il sangue ero convinto che mi avessero preso le arterie e quindi di avere i minuti contati. Dietro di me c’era anche uno che era stato ferito, ma non mortalmente. Si chiamava Cinquegrana e veniva dalla Bassa Italia, da vicino Napoli. Io allora ho rotto la camicia, tolto le mutande e legato il più possibile; non c’erano altri mezzi: ho legato e poi sono svenuto; mi sono svegliato alle tre e mezzo di mattina. Quando mi sono svegliato, c’era questo napoletano che era morto. Morendo, mi aveva detto che, se fossi tornato a casa, avrei dovuto passare da casa sua a salutare i suoi. Io sapevo dove abitava, andando in questo paese si poteva poi chiedere. Però non ho mai avuto questa possibilità. Lui è morto e io ho pensato che ero ancora vivo, che mi ero salvato; sono rimasto lì fino alle quattro del pomeriggio successivo: tutto il giorno sotto il sole con le mosche che mi mangiavano. Con i morti che c’erano intorno era ancora peggio: sotto il caldo di quaranta gradi… Quando sono venuti a seppellire i morti, hanno trovato me. Quello che mi ha curato è stato molto delicato; era della croce rossa inglese; mi ha ben fasciato, sistemato, poi ha chiamato due australiani, di quelli col cappello grande, e mi ha fatto mettere su una barella. Avevano fatto nell’oasi – che ormai era caduta in mano loro – una specie di ospedale da campo. Infatti sotto una tenda grande c’erano tutti i feriti. Mi hanno messo lì. Non c’erano ufficiali là in mezzo. Alla sera mi hanno portato là; alla mattina dopo mi hanno caricato su un camion e, attraverso il deserto, mi hanno portato verso l’Egitto. Eravamo in quattro o cinque feriti. Il treno egiziano arrivava fino al confine della Libia; mi hanno caricato sul treno e portato di là. Sono stato scaricato in una zona del deserto e, con gli arabi mi hanno portato in barella in un ospedale grande; alla sera mi hanno un po’ curato. Lì c’erano gli ufficiali medici italiani che erano caduti prigionieri, ma continuavano a fare il loro lavoro; il comandante dell’ospedale era un colonnello inglese. Quando mi hanno visto, la mattina dopo, io non sapevo niente, ma ho capito che il colonnello inglese parlava di amputazione, di tagliarmi la gamba. Assieme a me c’era un amico da Conselve che avevo conosciuto là e che era pure lui ferito. Anche lui aveva capito dell’amputazione della gamba, invece c’era un maggiore medico che ha detto (parlavano tra di loro, ma questo mio compagno da Conselve capiva) che prima di tagliare era meglio aspettare e provare a curare. Infatti mi hanno fatto vedere le stelle. Con una garza così mi puliva fino a far uscire sangue tutte le mattine; prima mi riempiva di alcool: vedevo le stelle, però mi ha salvato la gamba. Quando questo maggiore mi ha chiesto se avevo vivi mio padre, mia madre, i miei nonni (avevo solo la nonna) io ho detto di sì e lui mi ha detto che quando andavo a casa avrei dovuto abbracciarli forte perché avevo il sangue buono e così mi ero salvato la vita.
Ho fatto dieci-venti mesi là, all’ospedale, e poi mi hanno portato in campo di concentramento: ero alla gabbia sette perché, in mezzo a un campo di ventotto gabbie una era destinata ai prigionieri di guerra feriti. Ero ferito io e c’era tanta gente senza gambe o senza braccia. Venivamo trattati un pochino meglio. Perlomeno avevano riso e lenticchie a mezzogiorno e alla sera. Sempre così, fino a quando sono rimasto in Egitto. Quando è arrivato l’otto settembre, ero già prigioniero. Lì ci hanno messo apposta per la propaganda degli altoparlanti collegati alla radio, così all’ospedale sentivamo tutto. C’era anche uno che parlava italiano. Più tardi, dormendo per terra, mi si sono riaperte le ferite ed hanno dovuto ricoverarmi nell’ospedale di campo; lì mi hanno tenuto un altro bel po’ e si sono rimarginate. Sono uscito e mi hanno dato due ceste come quelle che si usano per mettere i polli, grandi, fatte con le foglie delle palme di dattero, e poi due coperte, in modo che sollevassi le gambe da terra, se no mi si sarebbero riaperte ancora le ferite. In quel periodo rientravano in Italia tanti mutilati di guerra che loro avevano fatto firmare. Io però non ho firmato perché ero invalido di guerra, non mutilato. In realtà era una firma per la collaborazione. Tanti soldati del Sud hanno firmato per tornare in Italia e liberarla, dicevano loro; invece, una volta tornati, sono andati a casa e non si sono più presentati. Quando mi hanno chiesto di firmare lo stato di collaborazione, in diciotto non abbiamo voluto firmare. Quindici li hanno mandati al campo di concentramento fascista, io ed altri due non potevamo essere mandati al campo fascista perché teatro di guerra; allora sono venuti due ufficiali italiani, uno dell’isola di Malta ed un inglese che non parlava l’italiano. Ha detto qualche cosa che noi non abbiamo accettato. Ci avevano messo attorno a loro, a ferro di cavallo. Il primo in testa era un toscano che, dalla grande paura che aveva preso in guerra, era diventato balbuziente ed aveva perso tutti i capelli. Comincia a parlare, balbettando, dice: “Io no”; l’ufficiale italiano ha detto allora: “Sa come va a finire; l’Italia ha bisogno!”. ‘Sto ufficiale pensava di averci governati tutti e, a un certo momento, chiede se altri dovevano dire qualche cosa. Io ho fatto uno scatto avanti ed ho detto che dovevo dire qualche cosa: “Se vuole uccidermi qui, può farlo, però il Veneto è ancora in mano ai tedeschi e se io faccio lo scemo e vengono a saperlo, vanno a casa mia e uccidono mio padre, mia madre ed i miei fratelli. Sono qui, potete anche uccidermi, però io non faccio la guerra a mio padre e a mia madre”. Gli altri hanno sentito e mi hanno applaudito. Loro, gli ufficiali, sono partiti e sono andati via. Avevano messo in lista anche me per rientrare in patria, quando la guerra era ancora a Cassino, purtroppo, però, non c’era posto perché le navi erano quello che erano; allora mi hanno lasciato ancora là. Ne hanno rimpatriati una quarantina; i più gravi che abitavano in Bassa Italia.
Quando è finita la guerra, hanno rimpatriato per primi gli invalidi di guerra. C’erano delle navi fuori uso; la guerra aveva distrutto tutto. C’era una nave tedesca carica di sughero. I tedeschi non hanno voluto cederla e gli inglesi l’hanno bombardata; c’erano le caldaie a vapore e le avevano messe fuori uso. La nave era tutta storta. Beh, sono stato rimpatriato con questa nave. Ho impiegato otto giorni per fare la traversata da Porto Said a Napoli. Siamo arrivati a Napoli quasi a mezzogiorno. Da lì, sempre a Napoli, sono stato portato in campo di concentramento, a dormire per terra, però ormai le ferite erano già guarite e, fortunatamente, non si sono più aperte. Dopo otto giorni sono venuti a prendermi da questo campo di concentramento e mi hanno portato sul Conero. Là mi hanno fatto dormire sulla paglia: dopo tanti anni! Tre giorni e poi mi hanno dato il via per venire a casa e mi hanno dato anche diciottomila lire. Io pensavo di poter comperare il paese, quando sono venuto a casa, perché forse credevo ancora alla canzone “Mille lire al mese”. Quando sono arrivato alla stazione di Napoli ho conosciuto uno che era venuto a prendersi il congedo e, per fortuna, sono venuto su con lui, perché non ero capace di camminare tanto bene e avevo lo zaino e tutto. Siamo venuti su in un vagone, di quelli da ghiaia, a ciel sereno. A Cassino ho speso mille lire per dei fichi e dell’uva, perché non mi avevano dato niente da mangiare. Alla stazione c’erano delle donne che vendevano queste cose. Ci ho messo quattro giorni per arrivare da Napoli a Bologna. Alla mattina, quando il treno si è fermato sugli Appennini, ho visto Bologna illuminata e mi sono detto: “Sono a casa!”. E quell’altro: “Si, arriviamo, non avere paura”. Siamo arrivati a Bologna alle dieci di sera: l’avevo vista verso le cinque di mattina. Siamo scesi. Eravamo sfiniti, non si trovava niente da mangiare e là ballavano. Chiedo a un bolognese se potevamo avere un pezzo di pane, qualcosa, e spiego che eravamo ex prigionieri di guerra di ritorno dopo tanti anni. Il bolognese mi dice: “Vada per quella strada, a due-trecento metri da qui c’è un bar che è ancora aperto; forse lì hanno qualcosa. E’ di un veneto, viene da Udine”. Andiamo in questo bar e dentro non c’era nessun cliente. Chiediamo all’oste se c’era la possibilità di avere un pezzo di pane. Non avevamo più fiato per andare avanti; lui ci ha detto: “Venite dentro, ragazzi, vi metto in quella stanzetta lì, vi sedete a tavola e adesso vediamo cos’ha mia moglie”. Aveva un quarto di anatra arrosto e tre panini: abbiamo fatto uno e mezzo ciascuno. Abbiamo mangiato ‘sta cosa e gli abbiamo chiesto, mentre lui chiudeva, se oltre al pagamento potevamo dormire per terra, così almeno eravamo al riparo. Lui, però, ci ha detto: “Magari potessi! Siamo perseguitati e non si può; mi dispiace proprio, ma non si può”. Allora abbiamo preso la strada per Ferrara; lì, in una piazza, c’era una fontana. Era l’unico posto e ci siamo buttati là per terra. Le coperte le avevamo. Verso le tre qualcuno ci ha dato dei calci sui piedi. Chiede: “Siete prigionieri di guerra?”. “Sì”, rispondiamo. “E allora perché non andate a dormire da qualche famiglia!” dice lui. “Dove?”. “Guardate, io abito là, dove c’è la luce accesa”. Sarà stato lontano duecento metri. “Venite là che vi do da mangiare, da bere, e un tetto per dormire; andrete a casa domani o dopodomani”. Ci aveva invitati, però ormai era mattina, per cui abbiamo risposto che era meglio che stessimo là. L’orologio ce l’aveva l’altro, non io. Ascoltavo quest’uomo che poi è andato via e diceva di stare tranquilli, che ci avrebbe dato vitto e alloggio anche il giorno dopo, se volevamo rimanere lì. Invece abbiamo aspettato la mattina. Con un po’ di aiuto dal cielo è passato di là un camion col rimorchio che apparteneva ai mulini di Ferrara e serviva per portare in giro frumento e mais per macinarlo. Abbiamo fatto un cenno per vedere se ci prendeva su e si è fermato subito. Siamo saliti su questo camion, dove c’era già altra gente, e ci ha portati fino a Ferrara, ma non poteva portarci più in là. Attraversiamo la città a piedi e vediamo il piazzale dove la strada si biforca a va in centro; sembrava di essere in Prato della Valle a Padova, il giorno del Santo, da quanta gente era là ad aspettare mezzi per poter venire in qua. Aspettando anche noi, avremmo tardato chissà quanto e così io e questo mio amico siamo andati a piedi verso Rovigo, pensando che poteva darsi che qualcuno passasse. Saranno stati tredici chilometri lungo l’argine del Po e abbiamo visto che c’era una famiglia che stava pulendo i fagiolini e che stava raccogliendo delle piante; noi avevamo la borraccia quasi vuota e ho pensato di chiedere dell’acqua a quell’uomo. Il mio amico era rimasto ad aspettare se passava qualcuno. Vado dentro con le borracce, le riempio, e chiedo all’uomo. Prima che finisse la borraccia, sento il mio amico che mi dice: “Beato, Beato, corri, corri!”. Io chiudo le borracce e corro in strada; c’era un camietto vecchissimo di passaggio. C’erano un uomo, una donna e un vecchio di quasi ottant’anni seduto su un cassone. Il mio amico ha chiesto se ci prendevano su e ci hanno detto di sì; andavano ad Abano a fare i fanghi perché avevano sofferto tanto. Per loro è stata una fortuna avere noi perché quando siamo passati a Pontelagoscuro, a Occhiobello, c’era il canale e quelle barche di cemento col ponte che passava sopra. Dall’altra parte c’erano gli addetti a togliere le bombe inesplose. Volevano che ci fermassimo là, che lasciassimo il camioncino perché dovevano portare via delle bombe, della roba; poi ci avrebbero riportato il camion e saremmo venuti a casa. Allora io ho chiesto se non si vergognavano di bloccare proprio noi. Con quella scusa ci hanno fatto passare e siamo venuti via. Arrivati a Battaglia, ci fermano davanti alla chiesa, anzi, gliel’ho detto io, perché dovevo venire a Cagnola. Saluto tutti, saluto il mio amico, ringrazio per l’aiuto, ringrazio la signora e vado dalla Colomba – un’osteria -, anche per farmi la barba, perché era lunghissima. Colomba non mi ha riconosciuto. Entro e mi siedo. La vecchia mi guarda e io la chiamo: “Colomba! Non mi riconoscete più?”. “Lei chi è?”, dice. “Sono Tranquillo. Si ricorda? Venivo qui con Toni Boaretto, questo e quello, venivamo qui alla sera quando tornavamo”. “Ah, guarda chi si vede! Si lavi; le do da mangiare?”, dice. Aveva un grande cuore. Io ho detto, anche se era mezzogiorno, che volevo solo che mi lasciasse fare la barba; non volevo andare a casa in quelle condizioni per non spaventare i miei genitori. Vado per radermi e, vicino alla porta, vedo che c’era quello che aveva un banco di frutta qui a Cartura; mi ha chiesto se ero io. Poi ha detto che era andato a Padova, due giorni prima, con mio padre che era contento perché era appena tornato mio fratello. Io non sapevo niente; era andato a casa mio fratello ed aveva trovato subito posto nella “Veneta”; mio padre ora sperava di rivedere anche me. Allora ho chiesto se lui andava a casa a mi ha risposto che ci andava subito. E’ partito con la bicicletta ed è arrivato a casa mia. Io non avevo più voglia di farmi la barba. E’ arrivato da mio padre – almeno così ha detto lui – ha chiesto permesso e ha detto di essere venuto ad avvisare che Tranquillo era là. Poco dopo sono partito per venire qui. Ero quasi vicino a Canova, mi siedo perché, tra valigie e zaino, ero stanco. Mi siedo ad aspettare che passi qualcuno. Passano due ragazze che prima tirano diritto, poi tornano indietro e mi chiedono se ero proprio io. Ho risposto di sì e loro mi hanno detto di essere amiche di mia zia Angelina. Una ha preso lo zaino, l’altra ha detto che saliva sulla bici, teneva la valigia ed io portavo lei. Abbiamo fatto così. Più avanti mi ha chiesto se riconoscevo uno che era lì, un prete. Io ho detto di no e lei mi ha detto che era Toni, il Pizzo, quello che era andato cappellano a Carrara. Allora io lo chiamo, questo si gira, mi corre incontro e mi abbraccia. Non ci mollavamo più. Ho detto che sarei andato a casa e che le due ragazze mi avevano aiutato. Lui mi ha dato una bicicletta da donna e sono venuto avanti. Intanto la ragazza con lo zaino aveva avvisato mia zia. La zia, con tutti i vicini di casa, è venuta così a vedermi e baci e abbracci. Nel frattempo, l’uomo di prima era arrivato a casa mia e mio fratello Pacifico ha preso l’unica bici di casa e mi è venuto incontro. Appena lui è arrivato, abbiamo lasciato che Toni Pizzo prendesse la bici e mia zia ha voluto che andassi da lei a prendere qualcosa di caldo. Io ero ormai un po’ via di testa e credo di essere andato a casa sua e di aver mangiato un mezzo piatto di minestra, però non sono proprio sicuro di questo. Mio padre, che sapeva che Pacifico mi era venuto incontro con la bicicletta, si era preoccupato perché non ci vedeva arrivare. Allora Albano, il fornaio, che aveva la moto, si è offerto di venire lui e mi è venuto a prendere davanti alla casa di mia zia. Sono salito in moto e sono arrivato a casa. Pacifico ha portato la valigia. Quando sono arrivato, ho trovato mio padre che mi guardava. Appena mi ha visto ci siamo abbracciati. In camera c’era mia madre, la fornaia e altre due-tre donne, vicine di casa che aspettavano. Mia madre, quando mi ha visto, mi guardava le gambe perché sapeva e voleva vedere se ero sano o no. Io le ho detto che le gambe le avevo e gliele ho fatte vedere. Poi mi sono fatto la barba, mi sono lavato… ecco. Poi sembravo un altro; vestito un po’ meglio. Così ero arrivato a casa. Quello che ho raccontato è, però, una panoramica: in mezzo sono successe molte altre cose. C’è la vita, insomma.
Tratto da: I giorni della guerra. La vita quotidiana durante l’ultima guerra nel racconto degli abitanti di Cartura, 1996. Diego Pulliero – diego pulliero@libero.it