Arturo Berto – Spedito ad Auschwitz come ribelle di Badoglio

Le case bruciavano, era tutto raso al suolo. Ci hanno lasciati là, ma non avevamo cibo, non avevamo niente. Rubavamo patate. Potevamo anche cercare di andare a casa, ma da soli, però…

Mi chiamo Berto Arturo e sono nato a Cartura il due luglio del ’21 da Nicola e da Bissacco Maria. In casa eravamo in cinque fratelli e quattro sorelle. Il tredici gennaio del ’41 sono partito per il militare, poi è scoppiata la guerra. Mussolini diceva un sacco di cose; c’era la radio del Comune che serviva per tutti e anch’io l’ho sentito così. Un mio fratello, quello del ’14, era partito e tornato; quello del ’18, invece, l’avevano trattenuto ed è stato poi schierato sulla linea Maginot, in Francia. Dopo l’otto settembre è stato preso dai tedeschi; oltre a lui anche quello più vecchio era stato richiamato ed è così finito in Germania. Io, invece, sono scappato e sono tornato a casa. Il tredici aprile del ’44, però, hanno preso anche me, a causa di una spiata, mentre andavo a Padova. Quello che mi ha fatto questo tiro lo metterei insieme a quelli delle Fosse Ardeatine: è stata una cosa ignobile.

A militare ero stato in cavalleria, nel 2° Piemonte Reale; poi ho fatto un corso e sono stato mandato a Milano, aggregato al 3° Savoia. Il corso era per prendere la patente di conducente per camion. Più tardi sono andato a Pinerolo e là ho fatto un’altra patente per guidare i carri armati. In Italia sono stato ancora a Campiglione e da lì in Africa: sono partito da Brindisi diretto a Bengasi. Sono partito dopo otto-nove mesi di militare, quindi eravamo già nel 1942. In Africa sono andato fino in Tunisia. A Sfax el Gabris mi sono ammalato e mi hanno rimpatriato. Sono sbarcato a Napoli, ho fatto la contumacia di un mese e mezzo e poi sono tornato a casa con tre mesi di convalescenza. Più tardi sono rientrato. Avevo chiesto di andare al deposito di cavalleria perché temevo di essere pescato dagli americani a Napoli, coi carri armati. Credevo che non ci fossero più cavalli e, invece, c’erano ancora quelli arabi da abituare. Allora ho detto che avevano sbagliato loro e così mi hanno rimandato a Pinerolo.

L’otto settembre sono scappato e sono tornato a casa; là sono rimasto per sei mesi; appunto fino al tredici aprile del ’44, quando i tedeschi mi hanno preso e portato in prigione ad Abano. Mi hanno consegnato a un maresciallo, minacciandolo che, se fosse mancato uno di noi – eravamo in due – lui avrebbe perso il posto. Il maresciallo ci ha chiesto cosa era successo e gli abbiamo spiegato che venivamo da Padova, dove c’erano stati dei bombardamenti come, per esempio, in via Raggio di Sole. Gli abbiamo detto che eravamo andati là per vedere i danni, ma, in realtà, eravamo andati in città per armarci: dovevamo prendere delle armi nascoste sotto una falsa pietra, ma ci hanno mandati in bocca alle SS tedesche.

L’idea di armarci mi era venuta perché ce l’avevo già coi tedeschi e coi fascisti e volevo vendicarmi di loro: questo è il motivo. Ce l’avevo coi fascisti, anche se pure tra di loro c’erano i buoni e le carogne, specialmente dopo che avevano preso i miei fratelli. Così ho preso contatto con uno di qui che aveva organizzato un gruppo di partigiani: era Gianni Garbinato. Il giorno che siamo andati a Padova non siamo passati a prenderlo perché il mio compagno aveva fretta: è stata la sua fortuna. Garbinato non era il vero e proprio capo partigiano delle zona, però era in amicizia con altre persone, aveva il contatto. Altri partigiani non saprei indicarne, perché la gente dice tante cose, ma poi la realtà è forse diversa.

Per quanto mi riguarda, stavo sempre con Garbinato, almeno fino a quando mi hanno preso per quella storia delle armi. E’ andata così: il compagno con cui mi ero messo d’accordo per andarle a prendere era Luigi Burattin. In quell’aprile del ’44 dovevamo trovarci con uno vicino alla Guizza, al Bassanello, e là ci dovevano consegnare delle armi. Questo tizio io non lo conoscevo; Luigi, invece, l’aveva visto un’altra volta: glielo aveva presentato Antonio Padovan che era anche lui qui da Cartura. Era un po’ malato in testa. Come sia andata, io non lo so; diceva che quell’individuo lo conosceva perché era andato da una sua sorella sposata e potevamo fidarci; invece uno era mezzo matto e l’altro un falso che guadagnava un tanto per ognuno di noi che vendeva ai tedeschi; ma questo l’abbiamo saputo dopo.

Quando sono tornato, ho anche saputo che era stato ucciso dai tedeschi stessi. Comunque l’hanno portato in prigione con noi e poi l’hanno chiamato, un’ora dopo, per interrogarlo. Noi l’avevamo incontrato alla Guizza; da là ci aveva portati in bocca ai tedeschi. Tutto è capitato in un’osteria verso Padova, vicino alla caserma del 20° Fanteria, nei dintorni di Prato della Valle. Ci hanno presi proprio in quell’osteria. I tedeschi erano già dentro. In prigione, dopo che l’hanno chiamato, non si è più visto. Luigi, invece, è tornato dopo dieci minuti. Il giorno dopo ne hanno messo dentro un altro; era Natalino Maggi, uno da Mortise, che aveva dato a Padovan dell’esplosivo per andare a pescare. Due cariche le hanno consegnate e la terza l’hanno data a Padovan, dicendogli di nasconderla.

Lui l’ha messa nella cuccia del cane, ma si è confidato con la spia che l’ha consigliato di nascondere tutto. Quando sono arrivati i tedeschi, hanno buttato fuori il cane dalla cuccia, preso l’esplosivo e portato lui in galera. Più tardi, però, l’hanno mollato; invece io e Burattin siamo finiti nella prigione dei “Paolotti”. I tedeschi volevano che andassimo volontari in Germania, ma io ho detto di no perché là avevo già due fratelli. Allora mi hanno risposto che loro erano dei prigionieri di guerra e così mi ci hanno portato per forza. Ci chiamavano “ribelli di Badoglio” e ci hanno spedito ad Auschwitz.

Dopo un po’ di tempo abbiamo visto i russi avanzare da una parte e gli americani dall’altra, così la Germania si rimpiccioliva. Con noi lavoravano un polacco e poi un francese, un giornalista. Di lui abbiamo perso le tracce perché i prigionieri venivano portati via a gruppi, per nazionalità. Noi eravamo gli ultimi. Finché tutti facevano i loro traffici, io, il polacco e Burattin siamo scappati. Siamo rimasti per otto giorni sotto un ponte, fino a quando non ci è passato sopra il fronte coi russi. C’erano dei tombini: noi ci siamo nascosti là e abbiamo raccolto un po’ di legna per scaldarci. Sono stati i russi a trovarci; sono entrati e ci hanno fatto alzare le mani. Ci hanno chiesto se sapevamo il tedesco e abbiamo detto di no. Allora abbiamo chiamato due russi che erano con noi e loro gli hanno spiegato chi eravamo. Ci hanno raccomandato di stare là fino a quando il fronte fosse passato.

Le case bruciavano, era tutto raso al suolo. Ci hanno lasciati là, ma non avevamo cibo, non avevamo niente. Rubavamo patate. Potevamo anche cercare di andare a casa, ma da soli, però.

Così io e Burattin abbiamo salutato il polacco e abbiamo deciso di cercare di salire sui treni che andavano a sud. Fra treno e tratti a piedi, abbiamo impiegato ventiquattro giorni per arrivare a casa. Là ho trovato la novità che uno dei miei fratelli era morto in Germania: mio padre questo non me l’aveva scritto. Io scrivevo a questo mio fratello; una volta ha risposto, ma poi non era arrivato più niente: né lettere per me, né le mie di ritorno. Pensavo che fosse malato e, tornato a casa, ho avuto la conferma. Sono cinquant’anni che ho la sua foto in tasca; era del ’18.

Io, invece, sono partito nel gennaio del ’41 e sono tornato nell’ottobre del ’45. Nel campo in tanti erano destinati al forno crematorio. Ogni due giorni passava il camion nero, quello della morte, che tirava su gli ebrei che avevano il numero di matricola sul braccio ed erano vestiti col pigiama a righe e col berretto. Li chiamavano juden. Noi dormivamo in una baracca a parte, ma lavoravamo assieme a loro. Il campo era diviso in settori: uno per gli ebrei, uno per gli italiani, uno per i russi, uno per i francesi. Erano tutte baracche di legno, ma col termosifone dentro; i letti erano a castello, a tre a tre.

La mattina si partiva con pala e piccone per fare le trincee. Io avevo il metro di legno e il capo dava la misura; di altezza era un metro e mezzo, per mezzo di altezza. Se la terra era morbida, bene, ma se sotto c’era la ghiaia, era una disperazione, perché non si tornava senza aver finito: finire il lavoro o niente cibo! Quando lavoravo con gli ebrei e mi chiedevano una sigaretta, dovevo far finta di perderla e così potevano raccoglierla, ma se se ne accorgevano erano botte. Gli ebrei erano distribuiti fra Auschwitz, Mauthausen e Dachau, ma i campi di prigionia erano tanti. Quando portavano là una famiglia, li dividevano perché non vedessero la fine degli altri.

Ad Auschwitz ce n’erano un formicaio e ogni due mattine, come ho detto, passava il camion per tirare su quelli che non riuscivano a lavorare perché ormai erano ridotti come scheletri.

In teoria il camion avrebbe dovuto portarli a disinfettarsi, ma da quei locali uscivano solo gli stracci, gli uomini no: quelli finivano nelle caldaie. Noi non abbiamo mai potuto avvicinarci ai forni. Vedevamo questo stabile, con un camino quadrato, non tanto alto; ma non ci potevamo avvicinare. Gli ebrei erano portati lì, invece. Non so se sapessero la verità… forse. Però quando vedevano che qualcuno mancava, si chiedevano che fine avesse fatto. Ce n’era uno da Brescia – che poi ho perso di vista – che diceva sempre che dovevano tornare. Voleva venirci a trovare, perché io cercavo di aiutarlo con qualche patata e qualche pezzo di pane. Diceva che suo padre aveva uno stabilimento di sardine sott’olio a Venezia.

Alla fine hanno portato gli ebrei nella boscaglia e li hanno mitragliati con gli aerei per finirli. Avevano tutti il vestito a righe e, con quel freddo che faceva, sotto avevano solo una maglietta. Si camminava sul ghiaccio d’inverno! Al campo sono rimasto dal settembre del ’44 fino al ritorno, nell’ottobre del ’45. Sono stati in tutto diciassette-diciotto mesi. Noi avevamo i nostri abiti. La fabbrica di Auschwitz occupava ottanta chilometri quadrati. Eravamo nell’Alta Slesia, in Polonia, non in Germania. Il mio era il lager uno, campo quattro. Ero in una baracca con tante stanze, fino a venti-trenta, tutte coi letti a castello: erano molto grandi. Come dicevo, eravamo suddivisi per nazionalità. Solo quello degli ebrei era del tutto recintato. Un giorno hanno bombardato e hanno colpito delle baracche; le hanno distrutte, ucciso gente.

Abbiamo cercato di aiutare, ma i tedeschi non ci hanno fatto entrare: non volevano che vedessimo… Nella nostra camera eravamo in venti-venticinque persone; in tutte ce ne saranno state trecento. Ci davano da mangiare una cosa che loro chiamavano verzuppa; per metà era brodo, poi c’erano farina di mais bollita e, delle volte, qualcosa che assomigliava ai semi di girasole. Poi c’era un pezzetto così di pane al giorno. Il francese che era con me si chiamava Giuseppe Filastri; quando davano da mangiare, lui aspettava, anche se gli dicevo di cominciare, perché se no poi stava male vedendo me che mangiavo. Delle volte annusava solo il pane per finire con noi. Però lui prendeva il pacco della Croce rossa, noi no; io ho avuto solo qualche pacco da casa.

Come orario mangiavamo alle dieci di mattina e alle quattro del pomeriggio; sempre la stessa cosa, versata in una gavetta di smalto. La mettevamo dentro la tuta per non perdere niente e poi avevamo un cucchiaio col buco sul manico per appenderlo alla cintura. Potevamo lavarci, ma fuori, con l’acqua fredda, perché avevamo rubato delle patate. All’interno della baracca c’era il termosifone col tubo di sfogo caldo. Avevamo portato un secchio d’acqua per cucinare le patate, ma un tedesco se n’è accorto e ha buttato via tutto. Un’altra volta ho cercato di acchiappare dei passeri; un tedesco, passando di là, l’ha visto ed è venuto fuori di tutto: ha liberato il passero e spaccato la trappola.

Facevamo di tutto per arrangiarci; se c’erano patate, o anche bucce, cercavamo di prenderle. Un giorno, tornando alle baracche, ho visto due che scaricavano patate per la cucina. Torno più tardi e stavano ancora scaricando, così ho pensato di rubarne. Aspettavo di passare quando non c’erano i tedeschi, tanto loro non sapevano chi ero. Con la gavetta sono riuscito a prenderne cinque e ho fatto festa. Verso la fine, invece, andavamo per le case; qualche tedesco diceva: “Meine hause!”, casa mia, ma io gli dicevo allora di tacere che, se no, gliela bruciavo. Allora avevamo preso coraggio. Nel mio campo c’erano solo uomini; solo nel campo dei russi c’erano donne. Ricordo che è morta la figlia del re, Mafalda; il campo delle donne era lungo la Vistola; là c’era gente di alta classe. Ma di questo periodo mi sono rimasti impressi più di tutto gli ebrei che non riuscivano a camminare e che poi bruciavano.

Quando c’erano i bombardamenti, non si poteva uscire dal presidio, però se non ci fermavano, scappavamo. Comunque bisognava allontanarsi il più possibile – almeno quattro o cinque chilometri dal recinto – perché bombardavano a tappeto. Il nostro lavoro era quello di fare trincee, come ho già detto, ma anche quello di togliere le bombe inesplose; ce n’erano anche a dodici metri sottoterra. Mi ha impressionato una bomba che ha sfondato un palazzo di quattro piani: l’abbiamo trovata, inesplosa, cinque metri sotto il pavimento. Quando le trovavamo, si incaricavano poi gli artificieri tedeschi di farle brillare. Noi scavavamo e poi loro intervenivano. Il nostro lavoro era questo. L’abbiamo fatto fino alla fine poi, in qualche modo, siamo tornati.

Tratto da: I giorni della guerra. La vita quotidiana durante l’ultima guerra nel racconto degli abitanti di Cartura, 1996. Diego Pulliero – diego pulliero@libero.it

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