Angelo Schiavon – Memorie di guerra in Grecia

Poi è arrivato l’ordine di andare ad Atene. Mi hanno caricato su una barchetta dove ho trovato anche un americano dell’Uruguay, di Montevideo…          

Sono nato a Roncaglia di Ponte San Nicolò il 24 febbraio del 1917 in una casa che si trovava un po’ più avanti rispetto a dove abito ora e che poi è stata demolita e rifatta diverse volte. Là c’erano più famiglie che vivevano insieme. C’erano tre fratelli sposati: mio papà, mio zio Giovanni e mio zio Gregorio Schiavon; un altro zio che si chiamava Guido abitava di fronte alla chiesa di Voltabarozzo. Mio papà si chiamava Giuseppe ed era di Ponte San Nicolò; lo stesso il nonno Bortolo. La mamma si chiamava invece Confine Giulia ed era di Cartura.

Della mia famiglia eravamo in quattro figli: due femmine, Amelia e Clementina, e due maschi; io ero il più piccolo. Quando è mancata mia madre avevo tre anni; mia sorella più vecchia mi ha portato via da casa finché hanno fatto il funerale alla mamma che era morta di parto insieme al bambino che aspettava. Cosa vuole, una volta l’assistenza dei dottori era quella che era…

Il papà faceva il mediatore di bestiame. Quando sono arrivato alla cresima mi ha detto: “Ho l’amico tale e l’amico tale che sono nel campo del bestiame e ti regalano un orologio; ricordati che sono tutti e due i tuoi santoli.” Dopo, quando ero a Catania e facevo il soldato, ho saputo che uno era stato ucciso. Si chiamava Augusto.

Quando ero piccolo in zona c’erano pochissime case. Qui dietro c’è una casa antica dove abitava una famiglia, ma, morti i genitori, i figli sono andati ad abitare da un’altra parte; sempre a Ponte San Nicolò, comunque.

Erano dei Bortolami. Ma c’erano due famiglie Bortolami: una era detta i Marcati e l’altra Guisse. Dopo c’era la famiglia Trento. Di fronte c’erano i Panozzo. Il papà era maestro e i figli lavoravano alla società di trasporti pubblici, “la Veneta”; erano Livio e Gildo.

La gente qua intorno, però, più che altro lavorava i campi. Quelli qua di fronte lavoravano la terra; di fianco, i Paganin, lavoravano la terra… Una di questi Paganin era mia nonna Regina che aveva sposato mio nonno Schiavon Bortolo.

Come scuola ho fatto fino alla quarta elementare perché i miei genitori non volevano più mandarmi a scuola; una volta non eravamo seguiti… Quando sono rimasto a casa perché i miei non mi hanno più mandato, io mi svegliavo alla mattina e avevo voglia di andare a scuola, ma non c’era niente da fare. Dopo, però, ho preso lo stesso il diploma.

Andavo nella scuola di Roncaglia, ma qui si faceva solo fino alla terza elementare; la quarta l’ho fatta a Ponte San Nicolò. Due chilometri tra andata e ritorno. Ricordo che un giorno il maestro mi ha messo in castigo; mi ha chiuso dentro la scuola con altri ragazzi e lui è andato in municipio. Noi pensavamo che fosse andato a casa; allora abbiamo forzato la porta fino a quando siamo riusciti ad aprirla e siamo scappati.

Il maestro non era Gabriotti; con Gabriotti ho fatto la prima, la seconda e la terza. Anzi, la terza l’ho fatta due anni perché ero capoclasse. Ero molto nervoso; forse assomigliavo a mio padre o a mia madre: non riuscivo a stare fermo. Anche il parroco, che si chiamava don Riccardo Romanato, una volta mi ha dato uno strattone perché non riuscivo a stare fermo sulle panche. Comunque di quando ho fatto la quarta a Ponte San Nicolò non ricordo chi era il maestro. Di Gabriotti sì: era una degna persona.

Quando sono andato a scuola c’era già il fascismo. Un giorno è successo che a mio fratello hanno dato la divisa: è stato richiamato o è andato via di leva; non mi ricordo. Ha lasciato a casa la divisa e mio padre mi ha detto che dovevo riportarla io alla casa del fascio; ma io non volevo e mio padre mi ha rimproverato.

Al tempo in cui io ero piccolo il podestà era Turcato. Sì perché mi ricordo che mi sono fatto fare il certificato penale proprio da lui per andare a lavorare. Turcato, per me, era una degna persona. Dopo non so con l’economia come si comportasse, ma nei miei riguardi è stato una degna persona. Era podestà, ma non segretario del fascio. Il segretario del fascio non ricordo chi era, queste cose non gliele posso dire perché io conoscevo le persone, ma non so che carica avevano.

Quando mi vestivano da balilla ce n’era uno che si chiamava M. Come balilla bisognava andare al sabato e alla domenica a fare il premilitare. Io non ero contento perché dopo aver lavorato tutta la settimana dovevi anche andare là. Così non ho mai indossato la divisa. Sono andato qualche volta, ma in borghese, ed ero bambino.

Mentre ero ancora a casa ho trovato un amico che mi ha offerto un lavoro, però era necessaria la licenza elementare; così mi sono fatto dare lezioni da un paesano che faceva il maestro e ho fatto l’esame. Ce l’ho fatta e mi hanno dato il certificato. Dopo ho fatto un concorso; eravamo in trentacinque e siamo stati assunti tutti. Poi però sono anche stati licenziati in tanti perché erano quasi tutti richiamati a fare il militare; stava arrivando la guerra e quei posti sono stati occupati dalle donne.

Io sono stato chiamato alla leva il 10 gennaio 1938. Sono andato al campo di aviazione qua a Padova e mi hanno mandato a Catania. Ho fatto diciotto mesi in aeronautica. Mi hanno messo al reparto servizi e facevamo quello che ci comandavano.

Di Mussolini ho ascoltato il discorso che diceva: “Da oggi in poi noi siamo in stato di guerra con i signori inglesi…” Secondo me aveva paura di essere invaso come la Polonia…

Difficile dire se la gente era contenta della guerra: non si capiva niente. Non ne parlavamo tra di noi. Poi la guerra è arrivata e mi sono presentato in Prato della Valle perché sono stato richiamato. Non ricordo in che mese, ma mi sembra subito, nel ’40; sono andato in fanteria in Prato della Valle. Era il 58° Fanteria. Da là siamo partiti e siamo andati a Marostica. E dopo Marostica siamo andati a Bressanone; dopo ancora a Vipiteno e da Vipiteno siamo partiti in treno per la Grecia.

A Vipiteno facevo servizio, conoscevo tutti gli ufficiali; ero da un colonnello che comandava il battaglione. Un giorno si è presentato un sottotenente che conoscevo e mi ha detto: “Senti Schiavon, ti diamo quindici giorni di premio; dopo però, quando torni, ti diamo anche i gradi.” Io gli ho risposto: “Senta, mi dispiace anche tanto, a me i giorni di licenza fanno piacere, ma i gradi no perché non sono una persona adatta a comandare.” A quel punto sono andato lo stesso in licenza; sono andato con un treno che per la maggior parte era costituito da carri bestiame. Al termine sono ritornato in caserma, ma mi sono trovato i gradi pronti e ho dovuto metterli. Mi hanno fatto caporale; ho dovuto attaccarli, ma io non gli davo nessuna importanza. Dopo mi hanno spedito in Grecia. E là i gradi sono durati poco.

Siamo arrivati ad Atene, ci siamo accampati non in una caserma, ma in un campo: tutti per terra. Dormivamo per terra e ci davano da mangiare una pagnotta. Là non avevamo niente da fare. Non abbiamo avuto combattimenti. Avevamo il fucile 91, quello che era stato usato anche nella prima guerra mondiale. Un giorno la nostra compagnia stava camminando per un viale, abbiamo visto tre polli e gli abbiamo sparato con il fucile, tanto per tirare qualche pallottola: non siamo riusciti a prenderne neanche uno.

Non abbiamo mai corso pericoli; se ho avuto delle contrarietà, le ho avute col mio comando e basta. Infatti a un certo punto sono stato trasferito in una nuova compagnia dove c’era un tenente; io, al momento, non avevo neanche visto chi comandava. Sono andato insieme agli altri soldati; quando era il momento di mangiare andavo e nessuno mi rompeva le scatole. Ho fatto così qualche giorno: andavo, ma non mi presentavo mai all’adunata. Sono sempre stato fuori perché nessuno mi aveva detto niente. A un certo punto il tenente mi manda a chiamare e mi dice: “Ma lei perché non viene all’appello come tutti gli altri?” Io gli rispondo: “Senta signor tenente, io sono qua da diversi giorni e, visto che nessuno mi rompe le scatole, non vado certo in cerca di altro.” Mi ha detto allora che voleva che anch’io mi presentassi all’appello come tutti gli altri, a fare il mio dovere. Io gli ho risposto: ”Sarebbe niente fare l’appello, ma lei dopo l’appello si diverte a fare camminare, correre i soldati e questi non sono affari per me.” A questo punto voleva mangiarmi vivo in mezzo al cortile. Ma io non ho mai avuto paura.

Dopo c’è un sottotenente della fureria che un giorno, mentre ero là a fare le pulizie, mi fa: “Senta Schiavon, ho una domanda da farle: come la vede lei questa guerra?” Io gli rispondo: “Questa è una guerra fasulla perché con quelli che abbiamo abbandonato – inglesi e francesi – eravamo fratelli e adesso siamo andati con quelli sbagliati. Poi bisogna vedere come si trova la situazione nei comandi perché se loro hanno fatto questo può darsi che gli sia arrivata la carta sbagliata o quella indovinata: noi non sappiamo niente.” Dopo ho detto ancora:

“Anche se la lascio delusa, quello che devo dire glielo dico: con gli inglesi e i francesi siamo fratelli e con quelli con cui siamo andati no: io non sono amante di questa guerra.”

Allora il sottotenente ha chiamato il comandante e gli ha parlato; dopo è tornato da me in mezzo al cortile dov’ero rimasto fermo e mi ha detto: “Siamo qua e dobbiamo stare qua in compagnia.” Io gli ho risposto: “Se ho fatto questa riflessione non è stato per un pensiero cattivo, ma solo per dire quello che penso in realtà; non intendevo offendere la sua persona e non ho mai avuto intenzione di comportarmi male.”

Dopo tre giorni mi dicono che bisogna andare in una caserma perché arrivano gli alpini in aereo e devono stare fermi per aspettare un altro aereo. C’erano con loro dei paracadutisti che dovevano andare in Africa. Stavano mandando truppe là perché stavamo perdendo. Di quei paracadutisti ne ho trovato, tempo dopo, uno a Padova; mi ha detto: “Angelo, sai che paracadutista ero? In prima linea in fanteria per tenere duro!”

Dopo correva voce nella nostra truppa che non c’erano più soldi da darci, nemmeno per la pensione ai vecchi che avevamo lasciato a casa. Ma se non potevamo aiutare i vecchi, cosa stavamo là a fare la guerra? Stavamo quasi facendo un ammutinamento quando abbiamo sentito parlare di queste cose. Eravamo preoccupati per i vecchi che erano rimasti a casa. Avevamo saputo che erano in difficoltà.

In Grecia ci hanno mandati per niente perché ci hanno fatto fare un rastrellamento – una colonna di qua e una colonna di là – e quando ci siamo incontrati con l’altro gruppo siamo tornati indietro. Ha capito che rastrellamento abbiamo fatto? Ci hanno fatto fare il rastrellamento per occupare i soldati, tenerli impegnati… Dopo ci spostavano spesso.

In Grecia c’erano i tedeschi: ne abbiamo fatte per non andare in mano a loro. Io non ho mai voluto vedere i tedeschi. Sono sempre stato lontano perché con loro non sapevi che fine avresti fatto. Un mio collega è tornato dalla Grecia a piedi. Dopo, quando è arrivato a casa, per riuscire a guadagnarsi una ciotola di farina, di mattina presto è andato a lavorare. I tedeschi l’hanno preso e l’hanno portato in Germania. Era un mio paesano di nome Ruzza Amedeo.

Dai tedeschi cercavo di tenermi alla larga. Scherza? Ma ha idea della vita che facevo per non cadere nelle loro mani? Scappavamo di notte e di giorno. Prima dell’8 settembre, però, i tedeschi non li ho mai incontrati. Una volta stavo rientrando in accampamento dal centro di Atene e per la strada ho trovato una macchina di tedeschi che volevano caricarmi e accompagnarmi in accampamento; sono salito, non capivo nulla, e questo è stato l’unico momento che ho passato con loro.

Quando è successo il rabaltòn mi trovavo ai confini con la Turchia e faceva rabbia che non passassero delle navi, delle spedizioni, qualcosa… L’8 settembre eravamo in una cameretta fatta di pali e abbiamo fatto i salti come capretti quando abbiamo sentito che avevano firmato l’armistizio. Eravamo contenti, ma invece abbiamo cominciato a tribolare proprio da quel giorno perché eravamo rimasti senza niente, senza vestiario. E i nostri comandanti… Chi li ha più visti? Un bel giorno ci siamo trovati da soli. Eravamo andati via con i superiori, ma loro, uno alla volta, sono spariti. Io il mio comandante non l’ho neanche più visto… Ci trovavamo staccati dai comandi, senza rifornimenti, così siamo andati avanti a piedi. Sempre a piedi…

Siamo partiti dopo l’8 settembre; di notte siamo usciti e siamo andati in montagna. Quando siamo andati via eravamo un gruppo grosso. Eravamo una colonna sempre più grande e siamo andati a finire in alta montagna; là ci siamo sbandati: un po’ di qua e un po’ di là. Ci siamo persi. Io ho abbandonato tutti perché vedevo che stando in compagnia era facile che ti prendessero o anche che tu ti prendessi delle malattie. Alla sera ci facevano rientrare in un posto e vedevo che tutti erano per terra. Allora ho pensato di andarmene da solo. Ma cosa succede? Per la strada mi hanno preso e mi hanno dato anche uno schiaffo perché mi hanno detto: “Lo sai che non si può fare così?” Allora mi hanno fatto rientrare, ma la prima sera sono scappato un’altra volta. Ho trovato lavoro in un mercato e un greco mi ha detto: “Vieni via con me?” “Sì”, ho detto io, e mi ha portato di notte in un paese; abbiamo anche attraversato un canale.

Lui era a cavallo, ma io ero a piedi. Comunque mi ha portato in una casa e la mattina sono andato con lui dal suo maestro di scuola, una degna persona che mi ha trattato con i guanti bianchi. Mi ha messo a fare delle tattarette, mi portavano da mangiare. Poi ho saputo che era arrivato l’ordine di andare in pianura. Era l’ordine della ritirata per gli italiani, così sono ripartito. Ho trovato degli altri soldati italiani e siamo rientrati a Volos. Là siamo entrati in un camerone di cui gli inglesi si erano impadroniti. I greci però non volevano, allora gli inglesi hanno detto: “Se volete è così, altrimenti è così lo stesso.” Hanno occupato la città.

Io in quel periodo mi sono ammalato. Eravamo pieni di bestie, di pidocchi e basta. C’era una vasca d’acqua grande, mi hanno tagliato i capelli e hanno cercato per le famiglie di trovare roba da vestire. Mi hanno vestito e allora ho cominciato a dare una mano in una famiglia. Avevano tre bambini: la bambina era la più vecchia e dopo c’erano due bambini che quando andavo via mi venivano sempre dietro. Erano persone come noi, non c’è differenza. In cambio dell’ospitalità andavo a dare una mano.

Il problema è che, come le stavo dicendo, succede che mi ammalo: tutte le sere con la febbre. Allora mi sono vestito per andare in ospedale e mi sono presentato in un ufficio provvisorio dove c’era un ufficiale. Mi chiede i documenti. Gli dico che sono ammalato e che ho dovuto presentarmi là per capire cosa avevo. Mi visita e mi fa la carta di ricovero con urgenza. Mi sono trovato in una sala non tanto grande con diversi ricoverati. Quella notte ho dormito, ma cosa succede? Il mattino dopo tutti si vestono; allora anch’io faccio come loro, ma mi dicono: “Lei stia in branda, non si muova che ci pensiamo noi a portarla via.” Hanno chiamato una Croce Verde e mi hanno trasportato in un altro ospedale.

In questo ospedale chi comandava era un maggiore inglese; come mi ha visitato mi ha subito portato dentro perché non prendessi freddo. Infatti quando sono arrivato mi hanno messo sotto una tenda. Ho fatto quaranta-quarantacinque giorni di ospedale per una broncopolmonite. Di notte c’erano le signorine che mi portavano l’acqua, le arance, perché ero ridotto proprio male. Non mi davano né medicine né niente, solo mi tenevano al caldo. Poi un giorno mi hanno portato a fare dei raggi. E’ arrivato un soldato che mi detto: “Sei un italiano tu: come mai sei qua?” Mi ha detto che anche lui era un italiano perché la sua famiglia, quando è scoppiata la guerra, si trovava in Inghilterra. Così aveva dovuto andare soldato. Mi ha detto che potevo chiedergli quello che mi serviva: asciugamani, ecc. Io gli ho chiesto come potevo pagarlo, se lui mi comprava questa roba. “Non importa”, mi ha risposto, “ci sono quelli che pagano…” Dopo quarantacinque giorni sono rientrato e ho ripreso ad andare a lavorare dalla famiglia greca di prima.

Poi è arrivato l’ordine di andare ad Atene. Mi hanno caricato su una barchetta dove ho trovato anche un americano dell’Uruguay, di Montevideo. Era un primo macchinista e sapeva cinque lingue; mi ha aiutato a fare una protesta presso gli inglesi per rifiutare il mangiare perché volevamo andare a casa. Anche perché iniziava la stagione calda e quindi potevano manifestarsi delle malattie. Così ci siamo imbarcati.

Dopo però ho preso un treno sbagliato; c’erano gli inglesi che circolavano e mi è successo che due di loro mi si sono presentati con una pistola proprio perché avevo preso quel treno. Era capitato che durante una sosta ero andato a prendere un medicinale perché mi avevo la febbre. Sono tornato in stazione e non ho più trovato il mio treno. Allora sono salito sul primo treno che è partito per poter arrivare a Bologna. E’ stato qui che i due inglesi si sono presentati con le pistole. Comunque sono arrivato lo stesso a Bologna e mi sono messo in strada. Dopo un po’ è passato un camion che stava andando a Padova e così sono arrivato in Prato della Valle.

Però è stata dura: per due anni ho avuto la malaria e sono sempre stato a carico di mio padre; entravo e uscivo dall’ospedale. I vecchi padroni mi avevano chiamato per lavorare, ma io gli ho detto che ero ammalato. Allora mi hanno risposto di stare tranquillo che quando ero guarito potevo andare da loro. Il lavoro l’ho ripreso il primo aprile del 1947.

Tratto da: Memoria e vita quotidiana. La seconda guerra mondiale nel racconto degli abitanti di Ponte San Nicolò. 2006. Comune di San Nicolò. Diego Pulliero – diego.pulliero@libero.it

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